a cura di Roberto Rinaldi, partecipante al Corso di Alta Formazione “Raccontare la verità: come informare promuovendo una società inclusiva. Giornalismo di inchiesta sociale: ricerca e accuratezza antidoti alle fake newsa verità” a.a. 2020/21
Varcare l’ingresso di un carcere per assistere ad uno spettacolo teatrale è un’azione che comporta un’assunzione di responsabilità che si riflette sullo spettatore in relazione alle persone in regime di detenzione–attori. Non si tratta solo di esercitare la semplice responsabilità da spettatore ma anche e, soprattutto, come cittadino che si deve confrontare con persone in regime di detenzione superando ogni forma di pregiudizio e /o stereotipo. «(…) Un tipo di teatro fondato sull’ascolto dei luoghi in cui opera, sulle biografie delle persone coinvolte, sulla reinvenzione continua dei linguaggi della scena, secondo i limiti delle strutture e dalle condizioni eccezionali di questa particolare forma di lavoro teatrale. Spesso i limiti sono diventati armi vincenti (…)».[1] L’articolo 47 della Costituzione italiana prevede che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Un obiettivo fondamentale nel percorso trattamentale dove «il teatro in carcere è apprendimento e coinvolgimento non solo di docenti, educatori, ma anche del personale di vigilanza carceraria. La relazione che si viene ad instaurare tra il regista e le persone in regime di detenzione è significativa sul piano della fiducia reciproca, del legame che si crea in un percorso condiviso. Altrettanto importante è instaurare un rapporto di fiducia con l’amministrazione carceraria. Il teatro non è solo attività di svago, ma svolge un importante valore terapeutico, agisce nel profondo e implica un percorso di consapevolezza che è individuale e collettivo allo stesso tempo. In questo senso deve essere considerato il valore dell’esperienza teatrale, come mezzo per imparare la dimensione sociale e collettiva, quando questa sia stata compromessa o ferita dall’azione collettiva». [2]
Una pratica sempre più consolidata in molti istituti carcerari, differenziata a seconda della tipologia: Case Circondariali dove le persone in regime di detenzione scontano pene brevi, Case di Reclusione, REMS (residenze per le misure di sicurezza per soggetti in cui è necessaria una custodia per motivi psichiatrici oltre che giudiziari), in cui l’attività laboratoriale del teatro incide profondamente su chi lo pratica. Il tema affrontato si sofferma sull’importanza dell’attività teatrale condotta in molti istituti di pena come metodo che favorisca l’inclusione sociale, tra l’istituzione carceraria e la società civile, con particolare attenzione al risultato, riscontrato nella diminuzione della recidiva da parte delle persone in regime di detenzione che si dedicano al teatro, dove si attesta al 6%, rispetto al 65% di chi non ha mai partecipato, e una volta uscito, ritorna a commettere reati. È dimostrato che l’attività teatrale in carcere favorisce la creazione di progetti collettivi di gruppo, stimolando sul piano motivazionale della conoscenza e della cultura a vantaggio di una prospettiva di vita futura. Il suo valore è liberatorio per chi vive in una condizione di reclusione nell’agire in uno spazio/tempo particolare. Un tramite tra un ‘dentro’ e un ‘fuori’ degli istituti di pena. L’obiettivo primario della pena detentiva è quello di modificare e trasformare il comportamento della persona in regime di detenzione, agendo sulla riclassificazione e trasmissione di reclusione nell’agire in uno spazio/tempo particolare. Un tramite tra un ‘dentro’ e un ‘fuori’ degli istituti di pena. L’obiettivo primario della pena detentiva è quello di modificare e trasformare il comportamento della persona in regime di detenzione, agendo sulla riclassificazione e trasmissione di nuovi valori, la cui importanza esercita sulla persona una possibilità di riscatto. Nel 2011 è stato costituito il Coordinamento nazionale teatro in carcere presieduto da Vito Minoia, esperto di Teatro educativo inclusivo all’Università degli Studi di Urbino, e composto da oltre cinquanta realtà teatrali presenti in 15 regioni italiane. Sono attivi sul territorio nazionale anche due coordinamenti di Teatro in Carcere in Toscana e in Emilia-Romagna, il primo fondato nel 1999, e il secondo nel 2011. Entrambi operano sui rispettivi territori con le diverse realtà artistico-professionalizzanti, presenti negli istituti penali, il cui mandato è di trasformare il carcere, da luogo esclusivamente esecutivo della pena ad un luogo rieducativo. In una società civile che si rispetti è fondamentale favorire processi di trasformazione e valorizzazione anche nell’ambito carcerario. Il Teatro Carcere si rivela dunque un’attività in grado di colmare il senso di impotenza e di disistima in cui la persona in regime di detenzione si ritrova a causa dell’assenza di stimoli, del tempo trascorso, del senso di inutilità e di perdita della propria identità. La legge n. 354 del 1975 dell’Ordinamento Penitenziario ha ripristinato l’obbligo di chiamare le persone in regime di detenzione con il loro nome, abolendo il metodo precedente, in cui si utilizzava il numero di matricola per identificare la persona: una questione di civiltà. L’argomento intende fornire una visione opposta a quella che i mass media diffondono abitualmente, nel riportare solo fatti di cronaca negativi riferibili alla realtà carceraria, contribuendo a formare una visione distorta e stereotipata nell’opinione pubblica in merito alla figura della persona in regime di detenzione, ritenuta troppo spesso come soggetto irrecuperabile. L’Italia è la nazione in Europa con il numero più alto di persone in regime di detenzione. Un sovraffollamento che rende difficile la possibilità di attuare le attività trattamentali e anche il rispetto dei diritti delle persone in regime di detenzione, come è accaduto di recente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove sono stati commessi atti di violenza inaudita perpetrati dagli agenti di polizia penitenziaria nei confronti delle persone in regime di detenzione, classificate come “comportamenti degradanti ed inumani”. I problemi nelle carceri italiani sono molteplici: il numero eccessivo di persone in regime di detenzione con 206 istituti di pena e una disponibilità di 47.040 posti, la presenza nelle celle di tre o quattro persone, la carenza di personale di sorveglianza, la mancanza di fondi strutturali per garantire l’attuazione di attività di rieducazione e non esclusivamente l’espletamento dell’esecuzione della pena. La detenzione di molti stranieri, le difficoltà linguistiche, le fasce deboli e povere provenienti da immigrazione clandestina. La giovane età e l’incidenza di reati minori come lo spaccio di sostanze stupefacenti. L’emergenza Covid-19 ha amplificato le tante problematiche sanitarie già presenti nelle carceri, il disagio psichico diffuso e l’alto numero di suicidi completano il quadro di un sistema carcerario in grave difficoltà. Tra l’opinione comune è presente spesso la convinzione che il carcere non impedisca di delinquere nuovamente, una volta liberate le persone in regime di detenzione. L’associazione Antigone lancia un appello in nome dei diritti delle persone in regime di detenzione a fronte di una decisione che appare come un dietro front rispetto alla funzione educativa della pena: «La Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha nominato una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, affidandone la presidenza al professor Marco Ruotolo, che molti anni e impegno ha speso sul tema della dignità umana e dei diritti fondamentali delle persone in regime di detenzione. Nel decreto di nomina si esplicita chiaramente che la Commissione avrà il compito di individuare “possibili interventi concreti per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”»[3]. A preoccupare l’Associazione Antigone è la decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di rivedere le norme di detenzione per quanto riguarda la media sicurezza che, secondo i loro calcoli, conta circa 35.000 persone in regime di detenzione: «Per alcuni detenuti, infatti, si eliminerebbe la sorveglianza dinamica e quindi le loro giornate tornerebbero ad essere trascorse per la maggior parte del tempo all’interno di in una cella di pochi metri quadri e di sovente sovraffollata».[4] La convivenza in spazi ristretti, la promiscuità, sono fattori che determinano forme di emarginazione e di discriminazione e tendono ad aggravare ulteriormente atti di aggressività e autolesionismo, oltre a incrementare i suicidi tra persone in regime di detenzione e agenti di polizia penitenziaria. La pratica del teatro in carcere è riconosciuta come lo strumento di inclusione sociale in grado di modificare il pregiudizio che la società ha nei confronti della persona in regime di detenzione, vista, spesso, solo come responsabile di crimini e quindi cattiva, immorale o deviata. Lo stigma sociale è conseguenza inevitabile nei confronti della popolazione carceraria, ed è alimentata anche da ulteriori categorizzazioni presenti all’interno degli istituti penali: stranieri, tossicodipendenti, persone con disagi psichici. Una visione negativa, che lo stesso giornalismo dovrebbe evitare quando si occupa di tematiche sensibili, come scrive Salvatore Soresi in “Parole, frasi e notizie per l’inclusione e l’esclusione” (“La passione per la verità” a cura di Laura Nota): «Parole, frasi, notizie che possono generare atteggiamenti inclusivi, ma, anche e più spesso, stereotipi e pregiudizi. (…) Ognuno di noi, giornalista o meno, non si limita a registrare e memorizzare in modo neutrale una informazione, una notizia, ma quasi inevitabilmente, tende a manipolarla, a interpretarla e a riprodurla a modo suo. E quando tutto questo riguarda fenomeni sociali complessi, come per esempio, quelli associati alle tematiche della migrazione, della disoccupazione, della precarietà o della pace, delle diseguaglianze, del benessere, della crescita e dello sviluppo, è molto probabile che vengano rappresentate di fatto le opinioni correnti e i modelli sociali e culturali che ne stanno alla base. Questo è un primo passo di consapevolezza che tutti noi dovremmo condividere e portarci a ritenere centrale l’unicità di ogni essere umano, sulla quale agisce, accanto a tante e comuni componenti, anche la sua soggettività, che è fatta sia di idee, di sentimenti e desideri originali che non possono essere completamente negletti, se intendiamo effettivamente pervenire a una vera conoscenza di quella persona o di quella situazione. Così, quando ci avviciniamo alle persone, e soprattutto, quando vogliamo informare a proposito di ciò».[5]
Elton Kalika dell’Università di Padova e Simone Santorso affrontano il problema dello stigma: «Lo status di detenuto, esattamente come quello di imputato o indagato, può rimanere impresso nell’identità sociale come un marchio difficilmente occultabile. Segni non visibili pronti a ricordare ogni singolo sbaglio del proprio passato, anche quelli che oramai da anni ci si è lasciati alle spalle. Di fatto lo stigma di detenuto non è immediatamente evidente, ma lo è socialmente: ritorna nelle memorie collettive della nostra società. Gli archivi dei mezzi di comunicazione di massa, oramai accessibili a chiunque tramite internet, sono pronti a ricordare tutti gli errori del passato, raccontati prevalentemente dagli articoli di cronaca, rendendo il reato per il quale si è condannati, un’etichetta permanente e indelebile»[6]
Una delle esperienze più significative vissute nel corso del 2021, seguendo il teatro nelle carceri in Italia è sicuramente quella della Casa di reclusione dell’isola di Gorgona in occasione dello spettacolo “Ulisse o i colori della mente”[7], ideato dal regista e drammaturgo Gianfranco Pedullà, insieme ai suoi collaboratori Francesco Giorgi e Chiara Migliorini, all’interno del laboratorio “Teatro in Carcere” della Regione Toscana, in collaborazione con la Casa di Reclusione[8], che ha permesso di conoscere un modello di detenzione basato sul lavoro dove sono cambiate radicalmente le condizioni di reclusione. Partecipare alla rappresentazione teatrale ha offerto alle persone in regime di detenzione di vivere un’esperienza di comunicazione sociale mediata dai linguaggi della scena. La direzione della Casa di reclusione, in concerto con il Ministero della Giustizia, e il DAP (in collaborazione con L’Ente parco dell’Arcipelago Toscano) ha dato vita a progetti di occupazione lavorativa che impegnano le persone in regime di detenzione nell’orticultura, agricoltura e manutenzione del patrimonio paesaggistico dell’isola. Attività che sono anche oggetto di studi dell’Università di Milano-Bicocca. Dal 1869 l’isola ospita una colonia penale agricola, inizialmente come succursale del carcere di Pianosa, e rimasta l’unica in Italia adibita a questa funzione. Oggi è sede distaccata della Casa Circondariale di Livorno e ospita circa novanta persone in regime di detenzione, molti delle quali possono lavorare all’esterno nel settore dell’agricoltura, vinificazione, caseificazione, oltre ad esercitare compiti di falegnameria e idraulica, attraverso una specifica formazione professionale. Ha l’obiettivo di creare un fondo economico da utilizzare per il reinserimento nella società civile. Per volontà della Lega antivivisezione è stato deciso di interrompere la macellazione degli animali che venivano allevati a fini commerciali, e le persone in regime di detenzione si sono offerte di accudire e curare le specie da compagnia e da cortile, aderendo all’iniziativa con entusiasmo.
Il direttore Carlo Mazzerbo, presente durante la rappresentazione teatrale, spiega come sia importante dare impulso alla creazione di una comunità capace di far emergere una cultura dell’inclusione, della sicurezza sociale, del lavoro finalizzato all’apprendimento di una professionalità da portare all’esterno, una volta scontata la pena. «È auspicabile favorire le condizioni di un avvicinamento tra detenuti e agenti, nel rispetto delle debite differenze (intese come ruoli) che vanno sempre mantenute, ma tenendo conto anche di quelle che sono le difficoltà di vita che accomunano e annullano le diversità all’interno degli istituti di pena. La reclusione può garantire un servizio di sicurezza sociale se si attuano progetti lavorativi mirati a far sì che la recidiva dei reati risulti bassa, una volta ritornato in libertà il detenuto. Come sono state pensate molte carceri questo purtroppo non accade. L’attività teatrale all’interno di un istituto di pena sconta la difficoltà di spazi non idonei che non sono stati previsti dall’ordinamento carcerario. Il contrasto tra la legge e l’edilizia penitenziaria è evidente: un luogo chiuso come giustificazione della pena. L’investimento delle misure alternative non viene incentivato. La realtà è quella che le leggi esistenti possono essere anche perfette ma restano sulla carta. Le persone in regime di detenzione esercitano delle attività lavorative e questo fa parte degli elementi fondanti del carcere, visto come luogo di recupero sociale, ma non è sufficiente. È necessaria anche la consapevolezza di certe azioni commesse da parte della persona in regime di detenzione per intraprendere un percorso di revisione. Non basta la semplice ammissione di colpa, è necessario anche mettersi in discussione e capire come certe scelte di vita abbiano procurato delle ferite alle vittime di reati ma anche a sé stessi. Quando si commette un reato, come il furto in un’abitazione, si dimentica la violenza psicologica e il dolore di chi la subisce non può essere cancellato. Solo alcuni hanno la capacità e gli strumenti per fare questo percorso. Non va dimenticato anche il problema di chi soffre di disturbi psichici, o di dipendenza da uso di sostanze, e la difficoltà di gestire tali situazioni è davvero molta considerando le poche risorse messe a disposizione. Sull’isola della Gorgona le persone in regime di detenzione sono impegnate in diverse mansioni dedite alla coltivazione agricola, all’apicoltura, alla cura di animali da cortile. Un progetto curato dalla Lav e dal veterinario Marco Verdone, che in passato esercitava la professione sull’isola, insieme ai quali è stata realizzata una Carta dei diritti degli animali e avviata la trasferta sulla terra ferma di centinaia di animali per mantenerli in vita. L’Università di Milano-Bicocca – Facoltà di Giurisprudenza, ha avviato un progetto per studiare la relazione tra le persone in regime di detenzione e gli animali presenti sull’isola. Obiettivo dell’attività di studio e ricerca è quello di riconsiderare i benefici portati da una condivisione non violenta di spazi, luoghi e tempi di chi, a tutti gli effetti, vive l’isola in armonia con l’ambiente che lo circonda, a prescindere dal proprio ruolo. È stato creato anche un laboratorio di scrittura creativa per le persone in regime di detenzione al fine di agevolare la narrazione delle loro storie con gli animali. Un intento raggiunto grazie alla consapevolezza e professionalità di chi ti permette di arrivare a comprendere il rispetto per la vita degli altri, a partire anche da quella degli animali. Per nulla scontato, grazie alla sensibilità delle stesse persone in regime di detenzione, si è creato un rapporto privilegiato tra l’uomo e l’animale. Queste attività hanno anche la funzione di cercare di togliere lo stigma che è presente tra agenti e persone in regime di detenzione e far comprendere che lo stato non è il nemico, superando la condizione negativa del detenuto in relazione al rapporto stesso con il poliziotto».
Gorgona è diventata “L’isola dei diritti umani e animali” e questa esperienza così particolare ed unica nel suo genere è stata documentata da una mostra fotografica visitabile sull’isola a cui è stato realizzato anche un calendario fotografico firmato da Pierangelo Campolattano, un agente di polizia penitenziaria, che spiega così il suo intento nel ritrarre le persone in regime di detenzione impegnate ad accudire gli animali: «Attraverso queste immagini ho voluto trasmettere l’importanza del contatto umano con l’animale, la serenità colta nei loro volti mentre si prendono cura degli stessi. Contatto che non solo contribuisce a rafforzare il valore rieducativo della pena, ma anche il benessere psicofisico generale e soprattutto mentale».[9]
Il valore di questa testimonianza deve far riflettere sull’importanza che riveste la detenzione ai fini di un effettivo recupero sociale, come si evince dalla testimonianza del direttore Mazzerbo, convinto sostenitore dei principi dell’istituzione carceraria che prevedono una reale rieducazione. Al termine della rappresentazione teatrale di “Ulisse o i colori della mente” si è tenuto l’incontro del pubblico con gli attori, il regista Gianfranco Pedullà e i collaboratori della Compagnia Teatro popolare d’arte, con l’intento di favorire un confronto di condivisione e inclusione tra i soggetti partecipanti. La presenza del direttore Carlo Mazzerbo, insieme al regista, ha permesso di contestualizzare l’esperienza come un vero atto di partecipazione collettiva. «Il carcere è un luogo di ripartenza e il teatro deve essere uno strumento per aiutare a realizzarla. Tutti noi come cittadini dobbiamo pensare che sia importante e sostenerlo come obiettivo politico, finanziario ed economico. Un carcere che vive nella società è un carcere che funziona meglio e il teatro fa da ponte tra i due. Non si parla mai abbastanza di quello che viene fatto di positivo, mentre si dà molta rilevanza alle notizie negative».
Gli attori in regime di detenzione presenti raccontano le loro impressioni vissute come ad esempio Vincenzo: «Sono da tre mesi sull’isola della Gorgona ed è la prima volta che recito davanti al pubblico. Mi sono emozionato e ho potuto capire fin dove potevo spingermi senza mai pensare di superare un limite ma solo interpretare la mia parte. La cosa più bella è stata quella di vedervi commossi». Significativo il commento di una spettatrice in grado di sintetizzare lo stato d’animo di tutti i presenti, ponendo un quesito fondamentale che riflette un pensiero comune: «Ho goduto della generosità con cui voi vi siete donati e il teatro deve essere considerato come necessario per favorire l’incontro civile. Fino a quale momento dello spettacolo gli spettatori hanno visto solo delle persone in regime di detenzione e quest’ultime, di fronte al pubblico, si sono sentite dei personaggi e sono riusciti ad uscire dalla loro condizione detentiva? Questa percezione finisce all’arrivo subito dopo lo sbarco e nell’atto di osservare i loro volti, la distanza si annulla e cambia la percezione della realtà immaginata. La sensazione provata è quella di una comunità e non più quella di un carcere». Una questione che richiama l’importanza della dignità della vita in carcere. Va considerato anche questo aspetto fondamentale che contraddistingue l’impegno nel migliorare le condizioni di vita in carcere. In un articolo pubblicato nel 2014 su Quaderni di Teatro Carcere, l’allora Provveditore regionale dell’amministrazione carceraria dell’Emilia-Romagna, Pietro Buffa, affrontava il tema della dignità e del rispetto delle diversità. «(…) Il nostro compito è quello di migliorare la situazione in carcere: in questo caso specifico, trovare una soluzione di miglioramento al fatto che una persona è costretta in uno spazio ristretto. A imporci lo studio per questo cambiamento è sicuramente la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ma allo stesso tempo è anche il nostro dovere in quanto esseri umani che lavorano nel sistema carcerario, è il nostro lavoro. Quello che si sta cercando di fare in Emilia-Romagna è applicare una norma che è stata dimenticata nel tempo. (..) Una delle cose che nell’ordinamento era auspicata era quella di riuscire a differenziare le persone: anche in carcere si doveva garantire a ogni persona di mantenere le proprie diversità e caratteristiche, la propria volontà ed individualità».[10] Pietro Buffa coglie anche il rischio incorso se le attività proposte alle persone in regime di detenzione non rispettassero le diversità individuali dei soggetti: «L’introduzione di una risorsa come il teatro, in questo carcere, luogo dove le persone presentano spesso un forte narcisismo, una voglia di primeggiare sugli altri, potrebbe incoraggiare il rischio di privilegiare i forti sommergendo i deboli. Questo è un rischio che va considerato e studiato, non solo in relazione alla possibilità del teatro in carcere, ma in genere riguardo a tutte le attività offerte. (…) Le persone incarcerate sono migliaia, ma non tutte hanno la stessa pericolosità, non tutte meritano un’attenzione rigida e ferrea. Sono molte le persone che, per la loro indole o per il passato, non hanno mai dimostrato di essere violenti ed aggressivi. La loro storia criminale ce lo dice. Molti hanno dimostrato di essere persone che, se trattate adeguatamente, potrebbero rispondere altrettanto adeguatamente». A questo si va ad aggiungere anche il problema del sovraffollamento delle carceri, per cui l’Italia ha subito diverse condanne da parte dell’Unione Europea per ripetute violazioni dei diritti umani, e la conseguente carenza di personale. Vengono segnalati anche atti di discriminazione nei confronti di stranieri in regime di detenzione e un incremento dei suicidi in carcere. «Al 31 dicembre 2020 negli istituti penitenziari italiani erano presenti 53.364 detenuti dei quali 17.344 con nazionalità diversa dall’italiana. Il 32,5% dei detenuti era quindi a quella data di origine straniera. È inoltre accertato che i carcerati stranieri sono fortemente discriminati rispetto agli italiani in quanto faticano ad accedere alle misure alternative alla detenzione»[11]. «Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel 2020, 61 persone si sono tolte la vita all’interno degli istituti di pena italiani. Oltre all’elevato valore in termini assoluti, il dato da considerare per un’effettiva descrizione del fenomeno è la relazione tra il numero di suicidi e il numero di persone in regime di detenzione mediamente presenti nel corso dell’anno. Nel 2020 tale tasso è risultato significativamente superiore agli anni passati, attestandosi a 11 casi di suicidio ogni 10.000 persone».[12] È responsabilità di chi opera nel settore dell’informazione giornalistica di evitare etichette lesive della dignità personale come è riportato nelle Linee guida per un linguaggio non-biased: “Validità e attendibilità – parte seconda. Fornire le informazioni”[13] Il tramite tra la realtà interna del carcere e la società esterna è rappresentato da un’informazione che tende a fornire solo notizie di cronaca negative: «Questa attenzione intermittente e marginale riservata alla realtà carceraria contribuisce a riprodurre gli stereotipi sociali più comuni attorno alla figura dell’individuo deviante, attraverso una stigmatizzazione e una amplificazione-semplificazione del concetto stesso di devianza».[14] Il regista Fabio Cavalli che lavora nel carcere di Rebibbia a Roma, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, spiega come la funzione del teatro in carcere ricada anche sul piano sociale e la diminuzione di reati commessi una volta ottenuto la libertà: «La pratica del teatro va a incidere nell’immaginario, nelle relazioni psicologiche e nelle interazioni sociali e familiari; nell’intera dinamica dei rapporti penitenziari e travolge anche le dure convinzioni degli agenti di polizia. L’esperienza teatrale in carcere costringe a chiedersi: “perché alla persona in regime di detenzione che fa teatro passa la voglia di delinquere?”. L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari dice che il tasso di recidiva fra le persone in regime di detenzione in Italia (55.000) arriva al 70%. Per chi svolge un lavoro in carcere il tasso scende al 19% e su un centinaio di Laboratori teatrali in carcere, la recidiva per chi li frequenta si abbassa al 6%.[15] Anche il teatro può entrare in un istituto penitenziario di alta sicurezza e proposto a donne in regime di detenzione, come nel caso di quello di Vigevano. Mimmo Sorrentino è un regista che opera dal 2013 all’interno della Casa Circondariale di Vigevano con le donne in regime di detenzione del reparto di alta sicurezza che sono state coinvolte in un progetto di “teatro partecipato”, un’esperienza che ha «cambiato non solo i destini delle persone coinvolte, la lingua e il modo di intendere e praticare il teatro, la conoscenza dei contesti della criminalità organizzata, ma le Istituzioni e le leggi della nostra Repubblica».[16] Nel 2016 nel corso della rappresentazione de “L’infanzia dell’alta sicurezza” messo in scena da Mimmo Sorrentino, chiesi la funzione di teatro sociale come forma d’arte fuori dai contesti tradizionali: «Non è che impari una volta per tutte e per sempre, bisogna stabilire un proprio limite. Lavorare in un carcere sul concetto di libertà produce un ribaltamento, un’apertura potenziale al discorso assente esso stesso in carcere. Sai che non salvi nessuno, specie se lavori qui dentro. E chi mi chiede se ciò che faccio è una forma di terapia, rispondo che fare teatro serve a generare un cambiamento che spero produca benessere. Parlare di terapia significa parlare di patologia e l’attore in regime di detenzione non è un malato. Se lavori in psichiatria allora il problema emerge e le figure mediche sono presenti. Le persone con Alzheimer se fanno teatro sono più propense a ricordare ciò che faranno piuttosto quello che hanno fatto e si organizzano per fare delle cose che dovranno fare, mentre quelle del passato appartengono e si avvicinano di più ai confini con la morte. Il medico attraverso il teatro lavora per trasformarlo in terapia. L’importante è riconoscere i propri limiti. L’operatore affronta la lettura del testo raccolto, del detto non detto, per cercare le parole delle persone che ha ascoltato dire ma che loro non sanno di aver detto (o vorrebbero dire). Questo è teatro di servizio ma può diventare anche teatro produttivo; al servizio di qualcuno perché è l’ente che ti chiama per lavorare con la sua utenza e non per il pubblico e quindi per la parte trattamentale. L’etimo della parola contiene una forte contraddizione, significa trarre con ‘forza’ ma anche ‘trattabile’ e adattabile’, e queste hanno un doppio significato. Il teatro di servizio può diventare produttivo quando viene visionato da esperti che lo ritengono valido per essere portato in scena anche all’esterno, convinti che possa essere presentato al pubblico. Il progetto allora va ripensato insieme all’ente committente. È importante però ricordare che ogni proposta fatta si basa su un atto di fiducia quando tu dai la consegna e anche il rifiuto a partecipare, se accade, anche nella proposta di un esercizio di improvvisazione, va sempre accolto ed elaborato insieme per ragionare e riflettere sulle motivazioni che impediscono la partecipazione. Una condizione superabile, comunque, la maggior parte delle volte. Quello che bisogna fare è distinguere l’errore dalla persona che tu coinvolgi nel progetto teatrale. La stima per la persona deve restare tale. Dentro le storie che vengono raccontate c’è l’errore ma la persona è sacra. Bisogna scindere. Accade che quando fai teatro dentro il carcere non ti preoccupi delle vittime, mentre quando sei uscito, viene spontaneo pensare anche alle persone che hanno subito delle sofferenze».[17] L’Italia detiene il primato dell’incremento delle attività culturali all’interno delle carceri, operando così un significativo mutamento nella percezione di sé e del suo futuro della persona in regime di detenzione, ma è necessario promuovere anche un processo di trasformazione al fine di contrastare i pregiudizi che sono presenti nell’opinione pubblica nei confronti di chi, una volta uscito dal carcere, viene considerato un soggetto irrecuperabile e incapace di essere rieducato nonostante abbia subito una condanna e l’esecuzione della pena. Tutto ciò, se finisce per rimanere esclusivamente all’interno delle ‘mura carcerarie’ non sarà utile alla persona una volta che si dovrà, nuovamente, confrontare con il ‘fuori’. Necessita quindi che il lavoro non sia solo autoreferenziale, ma abbia una realistica ricaduta rispetto alla visione che il contesto società ha di chi, si è momentaneamente alienato ma ha riscattato, attraverso la pena, il suo diritto alla vita libera. Se il teatro e tutte le attività trattamentali hanno permesso di modificare luoghi marginali ed estremi, quali sono anche le carceri, è altrettanto necessario sensibilizzare l’opinione pubblica per favorire il concetto di inclusione sociale. Entrando nel carcere di Volterra per la prima volta (dove da oltre trent’anni opera la Compagnia della Fortezza), ho provato un senso di inadeguatezza per il ruolo di critico teatrale che prevedeva unicamente il compito di recensire lo spettacolo. Non ero preparato ad affrontare l’incontro, anche con chi stava scontando pene detentive a vita, come l’ergastolo e quindi avesse alle spalle un crimine grave. Avevo nei confronti delle persone in regime di detenzione un atteggiamento diffidente e condizionato anche da notizie che riportano in modo negativo quanto accade all’interno degli istituti di pena, pensati come distanti e completamente avulsi dalla società. Attraversare questi luoghi di sofferenza voleva dire accettare di mettersi in discussione e tralasciare ogni forma di resistenza per rendersi disponibili a vivere un’esperienza collettiva. Il mio sguardo ha iniziato ad incrociarsi con quello dell’altro, di chi mi stava di fronte e da quel momento ho percepito il desiderio di interazione e di solidarietà e, in seguito, di testimoniarlo. L’esperienza estetica suscitata dalla rappresentazione teatrale, pur significante da un punto di vista artistico, non mi soddisfaceva, provando un senso d’inutilità nell’esercitare il semplice ruolo di osservatore privilegiato come giornalista. L’esperienza negli anni mi ha permesso di modificare la percezione che avevo nei confronti dell’istituzione carceraria, da luogo di detenzione a luogo di speranza. Il carcere non deve e non può essere un luogo distante emotivamente, socialmente, culturalmente, da chi sta fuori e non conosce nulla, se non dalle le cronache giudiziarie riportate dalla stampa. Entrando ho avuto la possibilità di verificare quanto sia indispensabile umanizzare la condizione di vita carceraria e le testimonianze che ho raccolto, attraverso i dialoghi con alcune persone in regime di detenzione, lo dimostrano. Scontare la pena per ridare una speranza di vita. Abbattere i pregiudizi è compito di tutti ma, e soprattutto, di chi attraverso il teatro, l’arte, la cultura, è in grado di comprendere e tradurre in forme di conoscenza, dialogo, memoria, l’evitare di distorsione della realtà in chi non diretta o vicina ne ha esperienza, ignaro di quanto accade realmente dentro le mura di un carcere. Come per ogni stigma, per ogni forma di esclusione, per ogni marchio, per ogni censura appare evidente che si debba superare la barriera della non conoscenza. Conoscere significa capire. Capire significa accogliere. Accogliere significa includere.
[1] V. Minoia in Il teatro in carcere, l’evoluzione di un fenomeno https://frontierenews.it/2017/10/
[2] M. Blasi in Il teatro in carcere come veicolo di integrazione in epale.ec.europa.eu 2016
[3] https://www.antigone.it/news/antigone-news/3392-il-rischio-di-un-grave-passo-indietro-e-non-e-un-film
[4] Ibidem
[5] L. Nota (a cura di) in “Parole, frasi e notizie per l’inclusione e l’esclusione” da La passione per la verità. Come contrastare fake news e manipolazioni e costruire un sapere inclusivo. Franco Angeli Edzioni. (pag.140)
[6] E. Kalika; S.Santorso in www.reasearchgate.net Dopo il carcere, resta lo stigma. Detenuto una volta, detenuto per sempre
[7] https://www.rumorscena.com/05/11/2021/ulisse-approda-sullisola-della-gorgona-e-trova-riparo
[8] Progetto “Il teatro del Mare” – Teatro popolare d’arte | EPALE (europa.eu)
[9] Calendario 2021. L’isola dei Diritti umani e animali. Lega antivisezione (LAV); Ministero della Giustizia Casa circondariale Livorno e Gorgona. Fotografie di Pierangelo Campolattano.
[10] P.Buffa in Teatro e Dignità. Quaderni di Teatro Carcere 2. Report Emilia-Romagna Teatro 360°: Dossier Testi. Testo dell’intervento tenuto nell’ambito della tavola rotonda CROCEVIE fra teatro e carcere. Teatro delle Passioni 27 maggio 2013. A cura del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, in collaborazione con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione. Coordinatrice Cristina Valenti. Trascrizione di Giulia Bongi
[11] https://www.rapportoantigone.it/diciassettesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/wp-content/uploads/2021/05/ANTIGONE_XVIIrapporto.pdf pag. 16
[12] Ibidem pag.88
[13] M.C. Ginevra in Validità e attendibilità – parte seconda. Fornire le informazioni.Promozione del linguaggio inclusivo; validità e attendibilità dei processi di raccolta delle informazioni. Lezione n.7 Corso di Alta Formazione Raccontare la verità. Come informare promuovendo una società inclusiva. Università di Padova 3luglio 2021
[14] R. Fiengo in www.ristretti.it Notizie dietro le sbarre: il giornalismo carcerario (G. Modolo) Linguaggio Giornalistico A.A. 2009/2010 Prof. Raffaele Fiengo
[15] https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2015/08/01/news/carceri-120243924/
[16] M.Sorrentino in Teatro in Alta Sicurezza Edizioni Teatrino dei Fondi/Titivillus Mostre Editoria 2018
[17] https://www.rumorscena.com/03/12/2016/il-teatro-partecipato-di-mimmo-sorrentino-crea-liberta-nell-infanzia-dellalta-sicurezza