Bruna Bianchi
Parte seconda. La critica alla scienza. Per leggere la prima parte cliccare qui
La “guerra alla vita”. Rachel Carson
A partire dal Secondo dopoguerra sono state alcune scienziate ad aver esplorato in profondità il nesso tra guerra, ricerca, sperimentazioni militari e distruzione planetaria da una prospettiva femminista.
Rachel Carson, la biologa marina che con la sua opera del 1962 Primavera silenziosa ha dato avvio all’ecologismo moderno, è considerata una radice dell’ecofemminismo, punto di riferimento e fonte di ispirazione per i movimenti ecologisti e femministi fin dagli anni Settanta.
Primavera silenziosa non è solo un grido di allarme contro i pesticidi, è un manifesto contro una scienza militarizzata in cui la natura è ridotta a bottino di guerra, una sfida all’idea del progresso, alla scienza, all’organizzazione militare, ai governi e all’industria responsabili del “biocidio”, di una vera e propria “guerra alla vita”. Il titolo a cui aveva pensato per la sua opera era The War Against Nature o At War with Nature. Essa è dedicata ad Albert Schwarzer e porta in esergo una sua frase: “l’uomo ha perduto la capacità di prevedere e prevenire, finirà col distruggere la Terra”.
Per prima Carson portò all’attenzione dell’opinione pubblica l’origine militare dei pesticidi, sviluppati dalla ricerca sulle armi, talvolta negli stessi laboratori.
La “moda dei veleni” derivava “dall’abitudine di uccidere”, ovvero dalla guerra.
In quegli anni il programma dell’energia atomica in cui si erano lanciati gli Stati Uniti rafforzò grandemente il potere all’organizzazione militare, artefice delle realizzazioni scientifiche e tecnologiche a cui era stata attribuita la vittoria nel Secondo conflitto mondiale. Dal 1945 al 1963 gli Stati Uniti, seguiti da Gran Bretagna e Francia, moltiplicano le detonazioni atomiche, crimini contro l’umanità e in particolare contro le minoranze, le popolazioni indigene, le persone più vulnerabili, le donne e i bambini. Questi crimini, minimizzati, ignorati, occultati, hanno avuto esiti catastrofici e permanenti: hanno reso inabitabili vaste zone della Terra, avvelenato le acque, causato milioni di morti, gravi malattie e deformazioni neonatali, creato una fascia radioattiva nell’atmosfera intorno al pianeta. Quando Carson stava scrivendo Silent Spring queste conseguenze disastrose non erano ancora del tutto note anche a causa della segretezza, ma la sua opera rivela che era allarmata tanto dai pesticidi quanto dalle ricadute radioattive. Già nel Mare intorno a noi aveva sollevato la questione dello sversamento in mare dei residui radioattivi che, a causa della dinamicità degli ecosistemi, avrebbero portato la morte in luoghi lontani. Non è un caso che in Silent Spring la prima sostanza citata sia lo stronzio-90.
Pesticidi e radiazioni stavano distruggendo le capacità rigenerative della natura. A partire dall’era atomica il carattere dell’interferenza umana sulla natura era mutata da una forza aggressiva a una forza di trasformazione fatale (Seager 2015).
Nel corso degli ultimi 25 anni questo potere non solo è diventato tanto grande da costituire un pericolo, ma ha assunto anche un aspetto completamente nuovo. […] Questo inquinamento è, nella maggioranza dei casi, irreparabile; le sequenze di reazioni da esso scatenate, sia nel mondo che deve alimentare la vita, sia nella vita stessa dei tessuti, sono per lo più irreversibili. In questa contaminazione ormai universale dell’ambiente, gli agenti chimici diventano sinistri […] coadiutori delle radiazioni nel trasformare la natura stessa del mondo – la natura stessa della sua vita (Carson 1963, p. 12).
Pesticidi e ricadute nucleari, “assassini silenziosi”, entrambi nati “dall’arroganza militare” rappresentano una sfida ecologica e culturale, una minaccia al patrimonio genetico di umani e nonumani e alla sorte stessa dell’umanità. La lesione delle cellule e dei suoi geni avrebbero causato tumori e mutazioni genetiche (Carson 1963, p. 15). Nulla si fa, conclude Carson, per preservare l’eredità genetica che ci appartiene fino a che non la trasmettiamo alle generazioni future e che ci viene da milioni di anni di evoluzione e selezione.
Silent Spring è un attacco di straordinaria forza alla disattenzione umana, all’avidità e alla irresponsabilità, alla scienza che, come l’ingegneria, la tecnologia, l’attività militare è un’impresa maschile. Essa non avrebbe più dovuto essere considerata prerogativa “di un piccolo numero di uomini, isolati come sacerdoti nei loro laboratori […] La materia della scienza è la materia della vita stessa. La scienza è parte della realtà del vivere; è il che cosa, il come, il perché di ogni aspetto nella nostra esperienza (Carson 1952, p. 91).
La letteratura, la tradizione folclorica, le scritture bibliche, la mitologia, i saperi dei nativi che avevano un rapporto diretto e rispettoso con la natura e ne sapevano leggere i segni, sono presentate come legittime fonti di conoscenza, sullo stesso piano della scienza.
Carson auspicava una scienza dei cittadini e delle cittadine che includesse le esperienze soggettive che potevano superare una visione meccanicistica della natura. Oggettività della scienza/soggettività delle storie non dovevano essere in opposizione. Occorreva fidarsi delle proprie osservazioni, democratizzare la scienza, aprire il lavoro scientifico e i suoi risultati alla pubblica discussione, rompere il legame tra scienza e industria e infrangere la barriera del segreto. I “cittadini scienziati”, che avevano contatto con la natura: i gruppi comunitari, gli osservatori amatoriali, gli attivisti e gli amanti dell’escursionismo, coloro che osservavano e nutrivano gli uccelli erano i migliori narratori dei cambiamenti ambientali.
Le alternative per Carson risiedevano nell’affermazione del diritto di sapere, nell’adozione del principio di precauzione e di un atteggiamento di umiltà di fronte all’ignoto; nel dovere dell’attenzione e di preservare “il senso della meraviglia” innato nei bambini, il vero antidoto all’impulso della distruzione.
Militarismo e distruzione planetaria. Rosalie Bertell
Gli enormi danni alla salute umana e alla terra che Carson aveva denunciato e previsto, a partire dal 1973 sono stati documentati da Rosalie Bertell, ecofemminista, religiosa ed epidemiologa (Bianchi 2022). Svelare il “vero costo sanitario dell’inquinamento nucleare” era lo scopo del suo primo libro del 1985, No Immediate Danger. Prognosis for a Radioactive Earth. L’opera illustrava nel dettaglio la pericolosità delle varie fasi dell’industria nucleare, metteva sotto accusa la cultura della manipolazione, della segretezza e della sistematica menzogna in nome della “sicurezza e supremazia nazionale” che nascondeva ai cittadini e alle cittadine le cause delle malattie e delle morti, delle deformazioni neonatali causate dalla produzione e dalle sperimentazioni nucleari, dei casi di sterilità, vittime che 15 anni più tardi avrebbe valutato in 1 miliardo e 300 milioni (Bertell 1999, p. 410-411).
Nella parte conclusiva, A Time to Bloom, offriva a lettori e lettrici la sua visione ecofemminista che poteva ispirare l’azione per il cambiamento: come per altre autrici, i valori femminili, legati alla maternità e alla cura avrebbero potuto contrastare le forze distruttive del militarismo, lo sfruttamento e la degradazione dell’ambiente.
No Immediate Danger divenne un punto di riferimento per il movimento antinucleare che negli anni Ottanta era in pieno sviluppo ovunque nel mondo, considerato, fin dal suo apparire, la continuazione di Primavera silenziosa. Sulla scia di Carson, Bertell muoveva una critica radicale all’ideologia dei “livelli di tolleranza”, quel lento avvelenamento imposto come prezzo dello sviluppo che tutti dovevano accettare. Come Carson, l’epidemiologa americana sfidò la nozione di oggettività scientifica che implicava il distacco dai suoi soggetti di analisi, accusò di arroganza la scienza moderna che legittimava l’introduzione nell’ambiente naturale di sostanze tossiche prima di averne verificato la pericolosità ignorando gli effetti combinati di quei veleni.
Guidata da una volgare curiosità, la scienza moderna procedeva per tentativi ed errori nel suo progetto di controllo della natura. Come altre femministe, Bertell criticava il concetto moderno di scienza come un sistema che si pretende universale, indipendente da qualsiasi valore etico e che soffoca le espressioni pluralistiche del sapere. Ella sviluppò un modo nuovo di concepire e praticare la ricerca epidemiologica, come una “scienza dei cittadini e delle cittadine”, femminista e anticoloniale, una scienza situata nella conoscenza locale, fondata sulle esperienze delle donne, dei poveri, dei gruppi marginalizzati, attenta alla soggettività e fondata sulle qualità femminili di empatia, cura e intuizione.
Come Carson, Bertell faceva appello al diritto di cittadini e cittadine di conoscere ciò che veniva fatto a loro insaputa, lanciava un forte richiamo al dovere dell’attenzione e invitava a non distogliere lo sguardo dalla distruzione della natura e dalla sofferenza che causava ai viventi. Come Rachel Carson, Rosalie Bertell ci ha insegnato che senza l’amore per la natura e la capacità di ammirare e meravigliarsi non c’è vera conoscenza né rispetto, ma solo rozza curiosità e brutale volontà di dominio che avrebbero inaridito le fonti della vita stessa.
Quell’eco-geo terrorismo chiamato scienza
Fin dagli anni Novanta le ricerche di Rosalie Bertell si rivolsero anche alle attività militari di geoingegneria, tema al centro dei suoi interventi ai congressi delle organizzazioni femminili in cui ricordò “non solo i test nucleari, ma anche altri esperimenti distruttivi, come l’immissione di berillio e altre sostanze radioattive nell’atmosfera superiore “solo per vederne l’effetto” o il lancio segreto di navicelle per causare deliberatamente buchi nella ionosfera.
Nel 2001 apparve il suo secondo libro: Pianeta Terra. Ultima arma di guerra, un’opera definita una delle più importanti del XXI secolo in cui ricostruiva i danni irreparabili causati al pianeta dalle attività e dalle sperimentazioni militari avvenute in segreto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Dal 1946, infatti, da quando la General Electric scoprì che rilasciando ghiaccio secco in una stanza fredda si potevano ‘creare’ cristalli di ghiaccio simili a quelli che si trovano nelle nuvole, il clima è diventato vittima del militarismo.
Le esplosioni nucleari nell’atmosfera interruppero o alterarono gravemente il normale moto ondoso delle atmosfere più alte, spesso inducendo modificazioni climatiche nella troposfera (Bertell 2018, p.31).
Da allora la geoguerra non si è mai arrestata e ora è in pieno svolgimento. Un esempio significativo del progetto di dominio e controllo del clima a scopi bellici è il rapporto condotto nel 1996 dal Department of Defense School Environment of Academic Freedom e presentato alla Air Force degli Stati Uniti dal titolo: Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025. Entro il 2025 i ricercatori militari prevedevano di poter dominare il clima a livello planetario e di proseguire nella sperimentazione all’ombra del segreto militare.
È ormai possibile manipolare grandi correnti di vapore per spostare le piogge, causando siccità e inondazioni. Monsoni, uragani, tornado possono essere accentuati aggiungendo energia; l’iniezione di petrolio nelle placche tettoniche o la creazione di vibrazioni con impulsi elettromagnetici possono causare terremoti. Alcune di queste manipolazioni sono state sperimentate nel corso della guerra del Vietnam e della guerra del Golfo.
In anni in cui le esplosioni nucleari avvenivano nell’atmosfera, nelle acque e all’interno della Terra, la possibilità di valutarne le conseguenze anche sulle cinture magnetiche della Terra fu immediatamente colta. Durante la corsa al dominio dello spazio gli astronauti russi e americani scoprirono le fasce di Van Allen, cinture magnetiche della terra a protezione delle particelle cariche dei venti solari. La Marina Militare statunitense fece esplodere tre bombe nucleari nella fascia più bassa delle cinture danneggiandole. Gli effetti a lungo termine non sono mai stati resi pubblici (Bertell 2018, p. 30) e nessuno si era preoccupato del diritto della gente di sapere ed eventualmente approvare tali sperimenti! (Bertell 2018, p. 29).
Nel 1974, in base al trattato segreto tra Unione Sovietica e Stati Uniti, l’Artico è stato bombardato con onde elettromagnetiche che hanno causato lo scioglimento dei ghiacci che avrebbero agevolato le attività estrattive e la navigazione. Impossibile rendere conto in poche frasi della ricostruzione della degradazione ambientale causata dalle attività di guerra e di preparazione alla guerra delineata da Bertell. Un esempio tra i più inquietanti su cui si sofferma sia nella sua opera che nelle interviste, è quello che prevede il riscaldamento della ionosfera attraverso onde elettromagnetiche generate artificialmente da un gran numero di torri di trasmissione sincronizzate (progetto HAARP) in grado di generare una enorme lente e riflettere l’energia prodotta indirizzandola verso obiettivi militari. A queste sperimentazioni la studiosa ritiene che si possano attribuire l’aumento dei terremoti e il riscaldamento globale.
Ciò che per prima cosa salta agli occhi a proposito del modo in cui i militari conducono ricerche e fanno esperimenti, è il loro carattere patriarcale. Sembrerebbe che il loro obiettivo sia quello di soggiogare l’intero pianeta come una donna, impossessarsene, farle violenza, assoggettarla al controllo maschile e trasformarla in qualcosa che non ha più alcuna reale autonomia o potere (Werlhof 2010, p. 8).
Intossicati dal continuo sviluppo di nuove forme di megamorte, geoingegneri e geoguerrieri stanno mettendo a rischio la vita sulla Terra; essi “ci distruggeranno con lento avvelenamento, collasso ambientale catastrofico, o guerra totale”. La necessità di un impegno femminista nel pretendere un dibattito democratico su quanto oggi viene fatto in segreto è stata affermata da Claudia von Werlhof, fondatrice nel 2010 con questo scopo del movimento in difesa della Madre Terra. Ispirata da Rosa Luxemburg e da Rosalie da Bertell, ha scritto:
Queste considerazioni di Claudia von Werlhof ci riportano al volume di Carolyn Merchant del 1980, La morte della natura. Come scrisse Bacone, padre della scienza moderna, nei suoi frammenti pubblicati dopo la sua morte, la scienza è Il parto maschile del tempo (1602-1603), una scienza maschia e virile il cui scopo è il dominio e la trasformazione del mondo. Nell’immaginario del parto maschile a dominare è la negazione del femminile, la volontà di sostituirsi alla sua forza generativa. Era questo l’immaginario degli scienziati del progetto Manhattam quando, comunicando la notizia dell’avvenuta detonazione a Hiroshima, esultando scrissero nei telegrammi inviati a tutto il mondo: “È nato un maschio!” (Seager 1999, p. 174).
La manomissione della terra e della vita stessa non si limitano alla geoingegneria, ma sono al cuore delle ricerche di ingegneria genetica, della biologia sintetica, delle biotecnologie, dell’intelligenza artificiale e delle nanotecnologie. Cosa accadrà al nostro futuro e alla natura? Come già sta accadendo, la vita continuerà ad essere sistematicamente scomposta e ridotta alla sua struttura cellulare, atomica, molecolare e ricombinata in una “nuova creazione”, ma una creazione oltre i suoi limiti, le sue forme naturali, una creazione che si presume migliore, più bella, più utile, più produttiva.
La distruzione planetaria, che per Rosa Luxemburg, Françoise d’Eaubonne, Rachel Carson e Rosalie Bertell era il risultato del processo di accumulazione, della ricerca del potere, dell’avidità, dell’avventatezza, della ricerca della supremazia militare, nella riflessione di Claudia von Werlhof è il risultato del progetto patriarcale di trasformazione del mondo.
È la volontà di superare la natura in tutte le sue manifestazioni, legami e nessi, ottenere il controllo di tutte le energie della terra e dei suoi sistemi di sostegno alla vita e ricombinarli nella forma di una gigantesca macchina utilizzabile anche come macchina da guerra. Il futuro verso il quale ci stiamo muovendo è un futuro in cui la natura, la materia, la vita saranno ancora più degradate e annientate; il culmine della civiltà patriarcale dove tutto è prodotto man-made, anziché nato dalle donne e dalla natura.
Che fare?
La consapevolezza di questo processo di morte che pervade gli scritti di molte ecofemministe non le ha condotte ad abbandonarsi a fantasie di catastrofe, di una distruzione totale da cui solamente può nascere un nuovo mondo e un nuovo modo di vivere. Al contrario, la completa accettazione della realtà le ha condotte alla ricerca di nuove energie umane per allontanarsi dal precipizio verso il quale passivamente o inconsapevolmente ci stiamo avvicinando.
Gli obiettivi non mancano; per limitarci alle prospettive indicate dalle autrici di cui ho trattato: opporsi alla segretezza militare, chiedere discussione pubblica il suo operato; sperimentare un modo diverso di fare ricerca scientifica, opporsi alla normalizzazione del nucleare, resistere al canto di sirena degli “esperti” che vorrebbero convincerci della possibilità di controllare i processi e le conseguenze del cambiamento climatico, spezzare “ciclo infermale di produzione e consumo” a partire dalle economie solidali di comunità, svelare il nesso tra militarismo e distruzione planetaria. Come farlo?
“Come” farlo ha milioni di risposte, ha scritto Bertell, una per ogni persona che si risveglia alla realtà. Le soluzioni richiedono un mutamento dei modi di vita, una genitorialità nonviolenta, la cura per gli ecosistemi e per i prodotti della terra […]. Il modo generale di azione è la non cooperazione con la morte e la cooperazione con la vita (Bertell, 1985, p. 330).
Non ci sono vie già tracciate o predefinite, non sappiamo, né possiamo sapere, se nascerà un movimento abbastanza forte da fermare gli esiti catastrofici che già intravediamo, ma sappiamo che ripensare i nostri concetti sul mondo nonumano e mettere in discussione il quadro concettuale riduttivo che colloca la natura nel regno dell’insignificanza è oggi un progetto di sopravvivenza. Sappiamo quali sono le premesse del mutamento: la nostra capacità di amare la Terra, di essere in sintonia con la sofferenza di tutti i viventi, di sentirsi parte di un ecosistema e onorare tutto ciò che sostiene la vita.
Per recuperare l’ottimismo della progettualità, la speranza per il futuro e la gioia del fare insieme, possiamo attingere dai grandi movimenti ecofemministi antinucleari degli anni Ottanta in cui le donne uscirono dalla paralisi indotta dal senso di impotenza e di paura, acquisirono il senso del proprio potere ed elaborarono una visione capace di cogliere l’intreccio di tutte le forme di dominio, come emerge dalla Dichiarazione Unitaria delle donne al Pentagono del 1981 (Paley 2007, pp. 145-146).
Molte sono le analogie tra quel periodo e l’attuale, prima fra tutte, la consapevolezza della crisi ecologica e della minaccia atomica. In quegli anni, come oggi, un attacco nucleare non era più visto come una remota possibilità. Negli anni Ottanta una nuova generazione di armi nucleari fu schierata in Europa; allora erano i missili NATO Cruise e Pershing II, oggi sono le bombe NATO B61-12 che potrebbero essere già state consegnate agli arsenali europei (operazione coperta dal segreto militare), ordigni che dovrebbero sostituire quelli considerati inutilizzabili in caso di conflitto nucleare. Bombe considerate “tattiche” o “piccole”, ma in termini di potenzialità distruttiva non c’è niente di piccolo nelle armi atomiche come gli attuali tentativi di normalizzazione vorrebbero presentarle.
Possiamo anche attingere dall’esempio di Greta Thunberg che ci ha ricordato che anche una singola persona, di qualsiasi età e con una forte motivazione morale, può portare all’attenzione del mondo il diritto di avere un futuro. Infine, possiamo contare sulle nostre stesse vite a cui siamo sempre liberi-e di dare un corso diverso.
Bibliografia
- Bertell Rosalie (1985), No Immediate Danger. Prognosis for a Radioactive Earth, London, The Women’s Press.
- Bertell Rosalie, Victims of the Nuclear Age, “The Ecologist”, 1999, pp. 408-411, https://ratical.org/radiation/NAvictims.html
- Bertell Rosalie, Pianeta Terra, L’ultima arma di guerra, Asterios, Trieste 2018.
- Bianchi Bruna, Rachel Carson e l’etica della venerazione della vita, DEP 2017, 35, pp. 43-73, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n35/03_Bianchi_modello.pdf.
- Bianchi Bruna, Militarismo e distruzione planetaria. Gli scritti e gli interventi pubblici di Rosalie Bertell (1973-2011), “Bollettino di Clio”, n. 18, 2022, pp. 108-132, https://www.mnamon.it/il-bollettino-di-clio-guerra-e-pace/
- Carson Rachel, Remarks at the Acceptance of the National Book Award for Nonfiction (1952), in Linda Lear (ed.), Lost Woods, The Discovered Writings of Rachel Carson, Beacon Press, Boston 1998, p. 91.
- Carson Rachel, Primavera silenziosa (1962), Feltrinelli, Milano 1963.
- Paley Grace, L’importanza di non capire tutto, Einaudi, Torino 2007.
- Seager Joni, Patriarchal Vandalism. Militaries and the Environment, in Jael Silliman-Ynestra King, Dangerous Intersections. Feminist Perspectives on Population, Environment, and Development, South End Press, Cambridge, Ma., 1999.
- Seager Joni, Carson’s Silent Spring. A Reader’s Guide, Bloomsbury, London-New Delhi-New York, Sydney, 2015.
- Werlhof Claudia von, (2010), Call for a “Planetary Movement for Mother Earth”, International Goddess-Conference “Politics and Spirituality”, 29 maggio, http://emanzipationhumanum.de/downloads/motherearth.pdf.