Per riflettere sul lavoro del XXI secolo: spunti e note a margine dei processi di svalorizzazione
a cura di Laura Nota, Laboratorio Larios, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata, Università di Padova
Stiamo diventando consapevoli del fatto che un numero sempre più consistente di attività lavorative si può e si potrà svolgere tramite internet. Brunetti (2020) sottolinea che grazie ai sempre più diffusi processi di digitalizzazione la quota dei compiti svolti al di fuori dell’azienda sta aumentando così come sta crescendo il numero dei cosiddetti ‘lavoratori autonomi’ che lavorano per clienti diversi e progetti diversi. Le innovazioni tecnologiche che hanno agevolato l’interconnessione tra le imprese, l’integrazione economica globale, il passaggio dal settore manifatturiero a quello dei servizi e la costituzione di un mercato del lavoro volatile e in continua evoluzione, favorisce la diffusione dei cosiddetti ‘lavori non standard’, in costante aumento (ILO, 2016; Cirillo 2019).
Negli anni ’80 in Europa, e così anche in Italia, diventa centrale il tema della flessibilità. Si espande in modo consistente la visione neoliberista e diventa oggetto di attenzione la rigidità del mercato del lavoro, sostanzialmente associata alle sue tutele, che viene considerata sempre più come un freno. Si opera per ridurre le regolamentazioni sviluppate a tutela dei lavoratori e per controbilanciare il potere datoriale. L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel 1994 pubblica uno studio influente che si concludeva sottolineando come la possibilità di creare posti di lavoro si basasse sostanzialmente su mercati efficienti privi di vincoli istituzionali (Simonazzi, 2021).
Uno dei temi fondamentali per la qualità della vita degli esseri umani è il lavoro e per l’orientamento esso è un tema centrale; ben conosciamo il suo valore per le persone, per la società, per il futuro, e per questo motivo come primo compito fondamentale dobbiamo essere in grado di comprendere cosa sta accadendo, conoscere la realtà, promuovere un ragionamento critico e avviare processi riflessivi che ci possano aiutare a mettere a fuoco ‘nuove’ realtà professionali, più eque e solidali per gli esseri umani e il pianeta stesso, affinché ci sia possibile poter contribuire a crearle. Così con questo testo verranno approfondite le tematiche della flessibilità, del lavoro non standard, della svalutazione del lavoro, che necessitano di particolare attenzione da parte di tutti e tutte coloro che si vogliono occupare di futuro e della sua progettazione.
Il sistema legislativo: un’altalena di supporti alla flessibilità e alla precarizzazione
Considerando i cambiamenti socio-economici che hanno caratterizzato le ultime decadi del novecento e le prime degli anni duemila, a proposito di lavoro sono state scritte in Italia diverse riforme per cercare di favorire l’incontro fra domanda e offerta, l’ingresso dei lavoratori nel mondo del lavoro e la riduzione della disoccupazione, basate sull’introduzione di tipologie di contratti atipici (es. il contratto di apprendistato, il contratto a progetto, ecc.), che hanno ‘invaso’ la nostra società e assunto una presenza predominante rispetto ai contratti a tempo indeterminato. Il trend avviato punta a contrarre il lavoro a tempo indeterminato e le tutele che di fatto sono dei costi, liberalizzando il mercato del lavoro e aumentando il potere di chi dà lavoro.
Qui partiamo dalla legge del 24 giugno, n. 196, del 1997, che porta il nome di “pacchetto Treu”, che fra le altre cose facilita la flessibilità tramite la promozione dei contratti a tempo determinato, le collaborazioni coordinate e continuative e l’ingresso sul panorama italiano del lavoro interinale (da ad interim, cioè temporaneo, provvisorio). Quest’ultimo nello specifico riguarda la possibilità per le imprese di ‘affittare’ dipendenti a tempo determinato, reclutandoli da agenzie specializzate iscritte ad un albo (Massagli, 2018). Nascono così le agenzie interinali, come Umana, Adecco, ecc., che danno vita ad un rapporto a tre, tra la persona che cerca lavoro, l’impresa che lo richiede, e l’agenzia che si pone come intermediaria, che ricerca e seleziona gli individui, li propone all’impresa in ‘tempo reale’ e per il periodo necessario.
Queste misure di flessibilità con l’andare del tempo sembrano non bastare. Forti sono infatti le pressioni europee a modificare ulteriormente le politiche del lavoro per aumentare i tassi di occupazione, facendo leva soprattutto sui processi di flessibilizzazione e la riduzione dei costi del lavoro. Nel 2001 viene redatto da Biagi e Sacconi quello che si chiama Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Pro-poste per una società attiva e per un lavoro di qualità; essi puntano ad utilizzare un genere letterario appartenente alla cultura europea per presentare a mo’ di proposte aperte l’idea di nuova legge, anche al fine di raccogliere suggerimenti e contributi da diversi interlocutori, e forse per preparare l’opinione pubblica e la società ad ulteriori cambiamenti. Gli autori fanno l’analisi della situazione lavorativa in Italia, descrivono la struttura del mercato del lavoro, le raccomandazioni europee, il valore della flessibilità, e propongono delle politiche del lavoro che tengano conto di tutto ciò. Cinque anni dopo arriva la legge Biagi (Legge n.30 del 2003), con il successivo D.Lgs. 276/03, che introduce ulteriori tipologie di contratto al fine di aumentare la flessibilità richiesta dal mondo imprenditoriale e di sostenere le assunzioni riducendo il costo del lavoro relativamente ad aspetti retributivi, fiscali e previdenziali. Si assiste ad una maggiore liberalizzazione del contratto a tempo determinato che può essere utilizzato per un numero più consistente di situazioni; si introducono i contratti di lavoro a progetto, per il pubblico e per altri casi specifici, al posto dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, che riguardano la realizzazione di attività nell’ambito di progetti specifici da svolgersi in autonomia da parte del collaboratore senza alcun vincolo di subordinazione e tutele, per es. per malattia, infortuni, gravidanza, più limitate; si sostituisce il lavoro interinale con il contratto di ‘somministrazione del lavoro’, tramite il quale si continua ad ‘affittare’ i lavoratori e le lavoratrici tramite un’agenzia, che ora diventa Agenzia per il lavoro, da parte degli imprenditori (impresa utilizzatrice) e, novità effettiva, anche da parte delle pubbliche amministrazioni.
Vengono introdotti pure altre modalità contrattuali: iniziamo con il lavoro occasionale e il lavoro accessorio. Quello occasionale riguarda qualsiasi prestazione lavorativa da svolgersi entro uno specifico limite di tempo ed entro un margine economico massimo (5.000 euro l’anno max); quello accessorio riguarda attività sempre temporanee ma specifiche (piccoli lavori domestici, di giardinaggio, assistenza domiciliare a bambini o anziani, insegnamento privato) svolte da particolari tipologie di lavoratori (disoccupati da oltre un anno, studenti, persone con disabilità, ecc.). Vi è poi il contratto d’inserimento che punta a favorire l’inserimento (o il reinserimento) nel mercato del lavoro di persone con delle forme di vulnerabilità, ad esempio con disabilità, con storie di disoccupazione ed età avanzata, ecc., garantendo delle agevolazioni alla datrice di lavoro fra cui incentivi associati alla retribuzione in quanto si può inquadrare il lavoratore in categorie fino a due livelli inferiori rispetto a quella spettante in base alle mansioni svolte in altri contesti o precedentemente.
Si propone il lavoro in cooperativa, dove per cooperativa si fa riferimento a quelle associazioni autonome di persone che si uniscono volontariamente per collaborare, operare assieme ad altri per il raggiungimento di uno scopo comune, di tipo economico, sociale e culturale. A differenza delle imprese, che hanno finalità di lucro, le società cooperative sono imprese che hanno scopo mutualistico ovvero si propongono di arrecare un beneficio comune ai soci. Fra le cooperative, oltre a quella sociale e della piccola pesca, vi sono quelle di produzione e lavoro che vedono ora la possibilità di instaurare un rapporto professionale fra socio e cooperativa che può essere subordinato, autonomo o di collaborazione mediante lavoro a progetto. Infine ricordo lo job sharing e il lavoro intermittente, formula del tutto nuova. Lo job sharing o lavoro ripartito riguarda un contratto mediante il quale due persone assumono insieme l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa. Spetta a questi due gestirsi l’orario e ripartirsi il da farsi, dividersi le mansioni o sostituirsi tra di loro. Il lavoro intermittente (o a chiamata) riguarda il mettersi a disposizione di un datore di lavoro a tempo determinato o indeterminato, per essere impiegato in base alle esigenze di quest’ultimo, con l’obbligo di lavorare nel momento in cui viene ‘chiamato/a’ di rispondere, con la possibilità di prevedere una ‘indennità di disponibilità’ che si percepisce per tutto il periodo in cui si resterà in attesa della chiamata, con eventuali conseguenze in caso di mancata risposta senza giustificazione. Appare evidente che con questa riforma si dà maggior spazio alla flessibilità e si rende sempre meno centrale il cosiddetto ‘posto fisso’, che viene sostituito dall’idea che il lavoro deve diventare un insieme di mansioni attuate in luoghi, in tempi e con datori di lavoro differenti (Massagli 2018).
Con il governo tecnico del 2011 si registra la Riforma Fornero, che sembra delineare un tentativo di modifica del trend in atto. Di fatto l’art. 1 della legge 92/2012 dice testualmente che si vuole “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione” incentivando “l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato”, che torna a rappresentare il contratto principale in tema di lavoro. Si arriva ad affermare la necessità di contrastare “l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali”. Si punta a correggere la deriva ‘precarizzante’ del lavoro e a porre un freno alla stipula di contratti a tempo determinato o comunque atipici, cercando di penalizzarli, o aumentandone il costo (contributo aggiuntivo dell’1,4% per il contratto a termine per finanziare i nuovi ammortizzatori sociali), o rendendo più pesante il funzionamento (riportando l’attenzione sulla presunzione di subordinazione per ogni collaborazione, anche in partita IVA, e rendendo più complesso il ricorso al contratto di lavoro intermittente) o, direttamente, prevedendone l’abrogazione (cosa che accade per il contratto di associazione in partecipazione e il contratto di inserimento). Per il contratto di apprendistato si arriva a richiedere la misura restrittiva dell’obbligo di assunzione di metà degli apprendisti coinvolti in impresa.
Così si assiste a delle restrizioni, a dei correttivi, nei confronti di alcune forme contrattuali per poter cercare di perseguire l’obiettivo di ridurre la precarizzazione, senza che però tali forme contrattuali atipiche siano di fatto eliminate. Sembra essere un passaggio che scontenta i più in quanto si prefigge di “riproporre uno schema di giuridificazione dei rapporti di lavoro, quello del lavoro subordinato a tempo indeterminato, tipico del secolo scorso e funzionale alle logiche della vecchia economia di stampo fordista-taylorista” e “perché si fonda sulla irragionevole convinzione di poter ingabbiare la multiforme e sempre più diversificata realtà dei moderni modi di lavorare e produrre in un unico (o prevalente) schema formale, quello del lavoro subordinato a tempo interminato che pure, per lo stesso Monti, non esiste più o, quantomeno, “è noioso” (Tiraboschi, 2012, p. XIII). Ma al contempo appare evidente che il lavoro atipico rimane e che il mondo imprenditoriale si può trovare nella condizione di accettare un piccolo incremento dei costi pur di mantenere la flessibilità, per altro facilmente scaricabile sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori (Ragozzino, 2012).
Nel 2015 abbiamo il Jobs Act, del Governo Renzi, che tende, nonostante l’attenzione ai tempi indeterminati e alcune abolizioni, a favorire i potenziali di crescita occupazionale cercando di liberalizzare i contratti a termine e riducendo i ‘freni’ imposti dalla legge Fornero. Uno dei punti nodali della riforma è l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che prevede che tutti i nuovi assunti a tempo indeterminato potranno essere licenziati con un indennizzo che parte da due mensilità per anno di servizio con un tetto di 24 mensilità. Si inserisce anche un indennizzo minimo di quattro mensilità, da far scattare subito dopo il periodo di prova, con l’obiettivo di scoraggiare licenziamenti facili. Vengono per altro aboliti i contratti di collaborazione a progetto, i co.co.pro, considerati i più precarizzanti e permeabili agli abusi. Rimangono, seppure con delle modifiche, i contratti a tempo determinato, la cui durata non può essere superiore a trentasei mesi, e con la possibilità di un massimo di cinque proroghe insieme ad un intervallo minimo tra un contratto e l’altro (10 o 20 giorni, a seconda che la durata del precedente contratto fosse fino a 6 mesi o superiore), possibili in quei contesti che prevedono il 20% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al primo gennaio dell’anno di assunzione. Con alcune modifiche, a volte semplificazioni e ampliamento dei margini operativi, rimangono il contratto di somministrazione, il lavoro occasionale, il lavoro intermittente. Secondo Saraceno (2014) si assiste sostanzialmente ad una “ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro, con la possibilità di rinnovare quelli a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di quattro-cinque mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni.”
Ed arriviamo al DL n.87/2018 conosciuto anche come ‘Decreto dignità’ che punta a contrarre la flessibilità. Tende a disincentivare i contratti a tempo determinato portando il loro limite da 36 a 24 mesi, aumentandone il costo contributivo dello 0,5% ad ogni rinnovo, prevedendo una riduzione delle possibilità di rinnovo da cinque a quattro, e ripristinando la obbligatorietà di indicazione delle causali. Altra misura che ha come obiettivo l’incremento dell’occupazione più stabile è quella di penalizzare le aziende che licenziano ‘ingiustamente’ i lavoratori. Oltre alle misure sui contratti a tempo determinato il DL cerca di porre un freno anche alla delocalizzazione. Le nuove disposizioni prevedono l’obbligo per le aziende che abbiano ottenuto aiuti pubblici per effettuare investimenti produttivi di non trasferire per cinque anni in Paesi extra UE l’attività economica che ha beneficiato del sostegno pubblico. In caso contrario, si avrà la decadenza del beneficio ed è previsto anche il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria.
Senza dimenticare che oggi, in piena pandemia, si è puntato a ridurre gli effetti del decreto dignità, prorogando i contratti a tempo determinato senza causale, favorendone i rinnovi, se dovessimo guardare dall’alto e da lontano questo dispendio di energie giuridico-economiche, approfondendo pure meglio e molto di più quanto qui fatto, i dati a favore e i dati a sfavore, non potremmo in ogni modo che osservare che nonostante gli sforzi e i tentativi di porre delle regole e dei paletti, il nostro contesto sociale ha fatto propri gli strumenti concettuali ed operativi per ridurre forme stabili di lavoro, i cosiddetti lavori standard, e introdurre e favorire i cosiddetti ‘lavori non standard’. Alcune voci cercano di far emergere oggi dubbi e perplessità sull’efficacia di queste politiche e a introdurre stimoli per ripensare a queste strutture sociali, nonostante le difficoltà e l’idea ancora molto presente che non sia possibile fare gran che. Simonazzi (2021) arriva ad affermare che questa marcata flessibilità, occupazionale, contrattuale, salariale, sia alla base del rallentamento della crescita della produttività di questi ultimi decenni e che le strategie basate sul contenimento dei costi del lavoro e sull’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro si leghino a competitività dei prezzi più che dei prodotti, allo scarso coinvolgimento del lavoratori nella costruzione delle basi conoscitive, tecnologiche e organizzative delle imprese, alla riduzione della fiducia fra imprese e lavorativi, con conseguenze negative per lo stesso processo produttivo. Abbiamo bisogno di dare più attenzione e corpo a questioni come equità, dignità, partecipazione effettiva, ad un modo diverso di pensare al lavoro. Purtroppo però, nonostante queste voci, ciò che sta accadendo, nei solchi già delineati, appare all’orizzonte come una tempesta di sabbia che non potrà che aggravare la situazione per molti.
Il lavoro ‘non standard’
Fra le forme di lavoro che hanno avuto una sempre maggiore presenza vi sono, come anticipato, quelle non standard. Non esiste una definizione ufficiale di lavoro non-standard (non-standard employment – NSE). Se da un lato non vi è una enunciazione univoca di lavoro atipico o ‘non standard’, generalmente esso riguarda tutto ciò che non è compreso nel lavoro standard, o lavoro full-time, a tempo indeterminato, basato su un rapporto di lavoro subordinato e bilaterale.
Vi sono tre tipologie di lavoro atipico: (a) le forme più ‘convenzionali’ di lavoro subordinato e bilaterale; (b) forme di lavoro autonomo ‘convenzionali’; (c) forme di lavoro atipico ‘nuove’. Per quanto riguarda la prima tipologia essa riguarda i contratti a tempo determinato e part-time (verticali e orizzontali); per quanto riguarda la seconda essa si riferisce alle lavoratrici e ai lavoratori indipendenti che di solito hanno più di un cliente e che possono eventualmente avere a loro volta dei dipendenti. La terza categoria raccoglie un’ampia ‘zona grigia’ fatta di sempre nuove e mutevoli forme di rapporti di lavoro. La ragione di fondo di queste modalità contrattuali dovrebbe essere quella di favorire l’occupazione, grazie alla flessibilità introdotta, garante della possibilità che si arrivi ad un’organizzazione dei tempi di lavoro e di cura della famiglia dei lavoratori che si concili anche con le esigenze del datore di lavoro (Macciocchi & Tironi, 2017). Le modalità non standard della terza tipologia in particolare si sono sviluppate in tutta Europa e in Italia, nello specifico, anche grazie ai supporti legislativi di cui si è scritto più sopra; la struttura di questi contratti è diversa da quella più tradizionale tipica del ‘posto fisso’, con una relazione tra datore di lavoro e lavoratore non più uno a uno, ma uno a molti e molti a uno, con schemi di lavoro e luoghi di lavoro non convenzionali, una durata limitata del rapporto, una organizzazione basata sulla flessibilità, un ruolo rilevante giocato dalle nuove tecnologie (Eurofound, 2020).
Qui facciamo una breve descrizione delle modalità di lavoro non standard appartenenti alla terza tipologia che sono presenti anche nel contesto italiano. La prima è quella che viene chiamata Lavoro agile o smart working che secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (2021) può essere definito così: “lo Smart Working (o Lavoro Agile) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”. Con questa modalità si dà valore a una filosofia manageriale che punta a favorire la flessibilità e l’autonomia dei lavoratori relativamente agli spazi, agli orari e agli strumenti da utilizzare, professando una maggiore responsabilità personale dei risultati. Quattro sono i pilastri che la caratterizzano: revisione della cultura organizzativa, responsabilità, flessibilità relativamente agli orari e ai luoghi, dotazione tecnologica. In questo le tecnologie hanno un peso sostanziale in quanto sono esse a consentire di scegliere dove lavorare e quando lavorare (forse), e sono numerose quelle che lo possono supportare, a partire dai computer, con webcam e microfoni, connessioni, software aziendali e piattaforme per la collaborazione, che permettono di condividere contenuti, di incontrarsi e discutere, di agire sullo stesso documento, fino ad arrivare a quelle che, è bene ricordare, permettono ad altri di accedere al nostro computer da remoto.
La seconda formula è il Lavoro tramite piattaforme digitali che vede come centrale il ruolo delle piattaforme nel far incontrare domanda di lavoro e offerta di lavoro (Aloisi & De Stefano, 2020). La piattaforma consente a organizzazioni o individui (lavoratori/trici) di entrare a contatto con altre organizzazioni o individui (clienti) per risolvere problemi specifici o offrire particolari servizi in cambio di un pagamento. Le principali forme di lavoro sono il ‘crowdwork’ e il ‘lavoro a chiamata tramite piattaforma’ (De Stefano, 2016; Smith & Leberstein, 2015; Sundarajan, 2016). Con la prima si possono affidare compiti in outsourcing, ad una persona che lo svolgerà in remoto, potendo scegliere fra numerosi potenziali lavoratori (crow, o folla) che possono di fatto trovarsi in qualsiasi parte del mondo (Kuek et al., 2015). Spesso si tratta di compiti parcellizzati e di natura ripetitiva difficilmente affidabili all’intelligenza artificiale (ad esempio, il riconoscimento di emozioni in un testo scritto, la trascrizione di file audio, la recensione ‘pseudo-volontaria’ di film o prodotti) (Howe, 2006; Irani, 2015); altre volte vengono richiesti compiti creativi, es. creazione di un logo[1], o forme di progettazione di attività industriali[2], traduzioni, marketing, design grafico e programmazione. La seconda riguarda l’erogazione di una prestazione ‘fisica’ da parte di lavoratori che costituiscono un gruppo più definito e stabile, disponibile in un territorio specifico, di seguito ad una chiamata tramite app. Le attività possono riguardare lo svolgimento di faccende domestiche, pagamenti, manutenzioni, pulizie, trasporti con auto, acquisti, consegne di cibo o altri oggetti, consulenze. Per entrambe le soluzioni sono necessari internet, velocità nello svolgimento del compito, una flessibilità tale che ricorda epoche pre-industriali (Cherry, 2016; Finkin, 2016). Si ha sostanzialmente a che fare con lavoratori disponibili ‘just-in-time’, pagati ‘a consumo’ e solo per la prestazione, sperimentanti una elevata ‘spersonalizzazione’ (chi porta il cibo a casa può cambiare continuamente) che accentua l’invisibilità, così come accade per il lavoro domestico (Cran et al, 2016). La piattaformizzazione del lavoro, e le relative esternalizzazioni, sembra interessare via via un numero sempre più ampio di lavoratori, una volta pensati intoccabili: MioDottore per la consulenza on line dei medici permette visite on line scegliendo fra circa diecimila medici; Net Medicare si presenta come un laboratorio virtuale per assistenza medica ‘virtuale’; Schoolr.net permette di scegliere fra tanti tutor on line per ogni disciplina scolastica. Esistono anche piattaforme per la consulenza legale on line, che consentono di avere on demand un avvocato che risponderà ad ogni esigenza, illustrando le norme di riferimento e relative strategie operative.
La terza modalità di ‘lavoro non standard’ viene chiamata Lavoro intermettente: si tratta di un lavoro occasionale, né stabile, né continuo, che una datrice di lavoro/un datore di lavoro richiede saltuariamente. È un tipo di lavoro subordinato tramite il quale il lavoratore si mette a disposizione di una impresa in periodi specifici dell’anno o in giorni specifici della settimana. Il lavoro viene svolto saltuariamente e vi sono due varianti: (a) la soluzione in cui il lavoratore sceglie di vincolarsi alla chiamata del datore di lavoro e quindi di caricarsi dell’obbligo di eseguire la prestazione ove richiesta[3]; (b) la soluzione in cui il lavoratore sceglie di non vincolarsi alla chiamata, ed è libero di valutare se eseguire la prestazione oppure no. In questo caso non ha diritto ad alcuna indennità per il periodo in cui non lavora. Questo contratto è maggiormente presente nel settore turistico, della cura, e dello spettacolo, e dell’agricoltura (Eurofound, 2020).
Una quarta modalità riguarda la Codatorialità e l’assunzione congiunta. Questa si trova associata a quella che viene chiamata la ‘rete di impresa’, ovvero un insieme di più imprese, autonome e distinte fra loro, che sanciscono un ‘contratto di rete’ per perseguire un obiettivo economico e produttivo condiviso[4]. In questo modo imprenditori e imprenditrici collaborano in ambitivi specifici al fine di accrescere le proprie possibilità e la propria competitività. All’interno di questi contratti è possibile prevedere forme di ‘flessibilizzazione’ del personale dipendente, distacchi tra le imprese della stessa persona, con scambi di professionalità possedute da dipendenti appartenenti alle diverse realtà aziendali, utilizzando o la co-datorialità o l’assunzione congiunta.
La quinta modalità prende il nome di Lavoro occasionale e libretto di famiglia. Lo scopo fondamentale è quello di dare vita ad un rapporto di lavoro formale per attività in ambito famigliare o in agricoltura evitando eccessiva burocrazia. Quando si tratta di lavori occasionali, saltuari, di ridotta entità con micro imprese e amministrazioni pubbliche, si parla di prestazioni occasionali (di cui conosciuta è la soglia dei 5mila euro netti non superabili tramite i contratti attivati nel corso di un anno). Il Libretto di famiglia è riservato alle persone fisiche e ha come oggetto i piccoli lavori domestici (es. giardinaggio, pulizia, manutenzione), l’assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità, l’insegnamento privato supplementare.
La sesta formula riguarda forme specifiche di cooperazione tra lavoratori autonomi: coworking e cooperative. Il primo comporta la condivisione di spazi di lavoro e back-office per lavoratori autonomi, freelance o microimprese. La seconda formula si incentra sulle cooperative che sono organizzazioni di proprietà comune e organizzazioni controllate democraticamente e caratterizzate da un’intensa cooperazione tra i membri nei campi della produzione, del marketing, dei trasporti, dell’edilizia, delle pulizie e della ristorazione. Le cooperative di lavoro rappresentano il 50% della cooperazione che presente nel contesto italiano (Istat, 2015).
Infine abbiamo il Temporary management che coinvolge soprattutto figure manageriali esterne alla realtà aziendale a cui ci si affida per la gestione di situazioni specifiche e momentanee sia critiche (tagli, riassestamento economico e finanziario) che positive (crescita, sviluppo di nuovi business). Si tratta di una figura che rappresenta una soluzione intermedia tra un consulente e un dirigente tradizionale, di cui l’impresa può servirsi per migliorare le proprie performance.
Queste modalità di lavoro sono in aumento in tutti i paesi Europei sia in relazione alla digitalizzazione che, ultimamente, al Covid-19 (Eurofound 2020). Nel tempo si sono gettate le basi per modificare i modelli organizzativi con un aumento via via sempre più massiccio dell’esternalizzazione; altrettanto importante è stata la terziarizzazione, che si è accompagnata alla riduzione dei movimenti sindacali e del loro ruolo di intermediatori significativi per bilanciare il potere datoriale. Come abbiamo anticipato è aumentata la zona grigia fra lavoro subordinato e lavoro autonomo reale, che però lascia le persone che vi lavorano senza le tutele tradizionali, quali ferie, malattie, retribuzione in base a specifici parametri, vincoli ai licenziamenti. Di fatto dobbiamo ricordare che la regolamentazione del lavoro, la cui fonte è il diritto del lavoro, per tradizione ha caratterizzato in particolare il lavoro a tempo pieno, continuo, indeterminato, incentrato su un rapporto diretto e subordinato tra dipendente e datore di lavoro, quello ‘standard’ o ‘tipico’; quello ‘non standard’ o ‘atipico’ manca di forme precise e incisive di regolamentazione e questo fa sì che sia più facile che i lavoratori e le lavoratrici del ‘non standard’ non godano delle tutele giuridiche e sociali di coloro che sono dipendenti con contratti a tempo indeterminato (Brunetti, 2020). Si ha l’impressione che si è venuta a creare una sorta di lavoratori e di lavoro ‘low cost’ e che, seppure siano intervenuti provvedimenti legislativi (vds Riforma Fornero e Jobs Act) nel tentativo di migliorare la situazione sperimenta, in realtà ancora oggi ci sono nodi irrisolti e mancanza di regole chiare che mantengono numerosi lavoratori fuori dai diritti fondamentali, compresi quelli relativi alle libertà sindacali. La situazione è talmente particolare che da noi la CGIL nel 2016[5] ha proposto la ‘Carta dei diritti Universali del lavoro’ con la proposta di estendere di fatto le protezioni del diritto del lavoro, con poche eccezioni, anche ai lavoratori non standard, e a livello internazionale l’ILO (International Labour Organization), nel 2019, per celebrare il suo centenario, ha riunito una commissione di esperti indipendenti, ed è arrivato a suggerire una ‘Universal labour guarantee’ (ULG) che afferma che bisogna riconoscere a tutti e a tutte, subordinati e autonomi, libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva, e giungere alla eliminazione del lavoro forzato e della discriminazione sul lavoro, all’abolizione del lavoro minorile, alla tutela della salute, della sicurezza, dei limiti all’orario di lavoro, al riconoscere un salario adeguato e la protezione contro le molestie e gli abusi (Aloisi & De Stefano, 2020)
Se da un lato il lavoro non standard può associarsi a vantaggi per le imprese, e forse ad alcuni aiuti ai lavoratori fra cui una maggiore possibilità di bilanciare vita lavorativa e vita professionale, esso espone a numerosi rischi, come una maggiore insicurezza, maggiori probabilità di trovarsi a cambiare più volte lavoro, diventare disoccupati, sperimentare condizioni poco decorose, e scarse possibilità di accedere a forme di protezione sociale, come ad esempio un’assicurazione sanitaria o un piano di pensionamento, che rendono la vita lavorativa fonte di difficoltà ed esperienza poco qualificante e dignitosa (Brunetti, 2020).
Sbilanciamenti di potere
L’incremento di condizioni lavorative che si allontano sempre più da esperienze dignitose e incentrate sui diritti ci portano a richiamare l’attenzione su un sistema socio-economico che si alterna fra creazione di ricchezza ed estrazione di ricchezza, pendendo via via per questa seconda soluzione. La prima necessita di creatività e investimento produttivo da parte di tutti e tutte, si fonda sui progressi della scienza e sull’aumento della conoscenza, si centra su una organizzazione via via migliore della società, che permette alle persone di interagire, scambiarsi beni e servizi, di percepire sicurezza e dignità. La seconda ha invece come obiettivo la sottrazione, e il successivo accumulo, di ricchezza grazie all’utilizzo di un potere di mercato per sfruttare i consumatori e i lavoratori. Il potere di mercato riguarda la possibilità di poche imprese di raccogliere per sé una elevata quantità di profitti e di rimanere per molto tempo in una posizione dominante, ponendo barriere alla concorrenza, fra cui quelle cosiddette in entrata con i brevetti. E quando vi è una sola impresa a gestire un tipo di lavoro possiamo parlare di monopolio. E in questo modo è molto probabile che i prezzi dei prodotti e/o dei servizi siano e rimangano elevati: questo consente alle imprese di sfruttare i consumatori imponendo prezzi più alti e di sfruttare i lavoratori pagandoli con salari più bassi (Stiglitz, 2020). Conquistare potere di mercato è dunque molto vantaggioso per un’impresa, ma il suo esercizio danneggia i consumatori e/o le altre imprese che acquistano i beni e servizi venduti a prezzo di monopolio. Inoltre, come sappiamo, il o la monopolista è meno interessato a innovare e investire e spesso è propenso a utilizzare gli extra-profitti in spese che li dissipano (sprechi e protezione del monopolio). Per altro in un contesto di monopolio o di oligopolio, una impresa può sostituire più facilmente un lavoratore con un altro, anche se le abilità del primo sono migliori di quelle del secondo, lasciando coloro che sono messi fuori in condizioni nelle quali non è detto che si riesca a trovare lavoro in tempi brevi e con facilità.
Abbiamo a che fare con un potere di mercato asimmetrico in favore del datore di lavoro o della datrice di lavoro, denominato ‘potere datoriale’. Questo si articola in tre tipologie di potere: il potere direttivo, che riguarda l’assegnare compiti e dare ordini, il potere di controllo, ovvero il monitorare l’esecuzione e il rispetto degli ordini, e il potere disciplinare, o il sanzionare se quanto richiesto non è stato fatto. Il potere datoriale nel corso del tempo è stato bilanciato dal diritto del lavoro, fra i cui compiti vi sono anche il circoscrivere e razionalizzare proprio questi poteri, spesso dando spazio a contratti di lavoro che si pongano nell’alveo del rispetto del diritto. Se una struttura socio-economica tende a ridurre, come abbiamo visto, il lavoro dipendente a tempo indeterminato e a dare vita a forme di lavoro che si basano per la sua esplicazione su contratti che sottraggono via via valore ai diritti conquistati, si crea un incremento del potere datoriale, della possibilità di abusare dei poteri anche in modo discriminativo, e si riducono le possibilità per temperare e umanizzare lo stesso potere. Le manifestazioni di questo potere possono riguardare il costringere a fare turni spezzati, orari prolungati, part-time al posto del tempo pieno, ecc. Si può assistere alla propensione a bypassare lo statuto dei lavoratori che comporta ad esempio il divieto di impiegare guardie armate, il divieto di perquisizioni arbitrarie, il divieto di sottoporre i lavoratori a discriminazione politica, sessuale, ecc., di fare indagini sui lavoratori.
La digitalizzazione agisce a vantaggio del potere datoriale, e forse pure a vantaggio dell’avvio di processi dispostici, grazie anche a quanto qui di seguito descritto.
Aumento delle forme di controllo. Le dotazioni dei lavoratori contemplano sempre di più badge, touchpad, braccialetti per la tracciabilità, fino ad arrivare ai chip bionici e agli esoscheletri (la cosiddetta tecnologia ‘indossabile’), con dispositivi RFID[6] di identificazione e radiofrequenza. Si possono avere badge che prevedono microfoni in grado di captare se si sta parlando, sensori Bluetooth e infrarossi che monitorano dove si è, accelerometri per registrare il movimento. Questi consentono di ricostruire i movimenti di ogni dipendente nell’arco dell’intera giornata lavorativa, quanto tempo uno è rimasto alla propria postazione lavorativa, quanto tempo è stato in bagno o in mensa o alla macchinetta del caffè, quali e quanti colleghi di lavoro sono entrati in contatto con lui o con lei, quanto a lungo ci si è intrattenuti nei locali sindacali, se si abbia o meno partecipato alle assemblee sindacali, se sono stati attuati comportamenti inattesi, accessi a luoghi insoliti, ecc., che possono così essere segnalati ai o alle manager. Vi sono applicazioni che raccolgono dati biometrici, come il battito cardiaco, il tono della voce, espressioni facciali, ecc. Le stesse caselle di posta elettronica che vengono fornite in dotazione possono permettere di raccogliere dati e di controllare l’invio di email ad esempio a destinatari non previsti; si può arrivare a conoscere il numero di battute sulla tastiera, la quantità e durata delle telefonate, i siti visitati durante il lavoro, le condivisioni effettuate con i social, ecc. Anche le applicazioni e piattaforme che permettono di svolgere riunioni e attività a distanza (es. Zoom) si caratterizzano per programmi capaci di raccogliere dati, sia in accordo con i lavoratori che senza il loro consenso, che permettono di giungere a delle vere e proprie profilazioni da utilizzare per gli scopi più diversi, per fare graduatorie, premiare, punire, ecc.
Per altro, oggi è sempre più possibile l’incrocio di informazioni provenienti da diverse fonti e la loro integrazione: i dati dei badge sono integrati con quelli delle mail, dei calendari, delle telecamere che possono scattare foto a intervalli stabiliti delle schermate del pc, ecc., tanto che si arriva a sapere quanto tempo le persone passano con altri, dello stesso sesso e non, quali attività sono state svolte, la percentuale di tempo speso nel parlare e nell’ascoltare, e così via. Se questo non bastasse, e dove possibile, si possono aggiungere le valutazioni dei clienti, stimolati da domande quali ‘lo consiglieresti ad un amico? come valuti la pulizia dei locali? ecc.’ che permettono di raccogliere ulteriori dati utilizzati per dare punteggi, creare classifiche, fonte spesso di ulteriore conflittualità e competizione fra i lavoratori. Questi processi prendono il nome di Workplace Analytics e si basano su strumenti e procedure, come abbiamo visto, che permettono di tracciare e monitorare la giornata di lavoro dei dipendenti, con software che diventano via via sempre più in grado di offrire forme illimitate di controllo, verticale, ma anche orizzontale (Fullin & Pacetti, 2020), di rendere ‘trasparenti’ i lavoratori, e non sempre con il loro accordo.
Nuove forme di gestione. Altro fattore di ultimo grido è la algorithmic governance. I dati raccolti vengono utilizzati dagli algoritmi per delineare i migliori, i peggiori, i più efficienti, i meno capaci, per decidere chi spronare, chi allertare, ecc.: così ad uno può comparire una luce lampeggiante che segnala che ci sta mettendo troppo a svolgere un lavoro, ad un’altra appare l’immagine di una tazzina di caffè che indica che bisogna agire più velocemente, ad un terzo una stellina che evidenzia qualcosa svolto un modo adeguato. Gli algoritmi determinano anche il lavoro che deve essere attuato: quanti pezzi da sistemare, quanti da consegnare e dove, ecc.
Nel fare queste operazioni, come più sopra evidenziato, gli step e le ‘scelte’ sono spesso poco note e trasparenti, e quindi difficili da contestare. A questo riguardo, da un lato, una cosa sono gli algoritmi che fanno sapere quanti pezzi vanno posti su uno scaffale, quanti prodotti sono stati acquistati, quanti sono da aggiungere, ecc., dall’altro, ben diversa è la situazione nella quale gli algoritmi arrivano a gestire il personale. In questo secondo caso il tipo di algoritmo ha una rilevanza sostanziale, ha impatti sociali consistenti e sta emergendo in tutta la sua valenza valoriale la mancanza di trasparenza, spesso nascosta dietro il segreto industriale, sulle variabili e i criteri considerati e la necessità che questi aspetti vengano condivisi con i lavoratori. Se si pensa che possono essere raccolti dati anche relativamente ai movimenti del mouse e sull’uso della tastiera senza che i lavoratori lo sappiano e che tutte queste informazioni vengono presentate ai manager, sotto forma di informazioni su chi è ok e su chi è poco ok, su chi si sta comportando in modo poco atteso, chi sta mettendo in atto comportamenti che fanno trasparire il desiderio di andarsene, chi merita una promozione, un aumento di stipendio, una punizione, sull’efficacia di comportamenti di leadership, su quanto un lavoratore può essere pronto a rimpiazzare un altro, ecc., la gravità della situazione e la necessità di forme di regolamentazione emergono in modo forte (Aloisi & De Stefano, 2020)
Processi di selezione deumanizzanti e profilazione dei lavoratori. Un uso oramai dilagante degli algoritmi riguarda i processi di selezione. Essi infatti possono raccogliere dati da molte fonti, compresi i social, video, materiale on line. Ci sono specifici servizi di consulenza che prendono in esame i post in Facebook, Twitter e Instagram dei e delle candidati/e per offrire ‘valutazioni’ e profili di adattabilità, di adeguatezza, ecc. A tal fine si utilizzano anche algoritmi che eseguono il riconoscimento dei movimenti facciali e di attività linguistiche, tramite il natural language processing[7]: si richiede alle persone di videoregistrarsi o si individuano video on line e si utilizzano algoritmi di intelligenza artificiale che considerando la mimica (sorrisi, sguardi, tremoli), l’uso dei verbi (forma passiva e attiva), l’utilizzo del noi o dell’io, la lunghezza delle frasi, il tono della voce, le parole scelte, i movimenti del volto, per dare indicazioni su abilità, atteggiamenti, stili di vita. Ovviamente l’algoritmo confronta i dati raccolti con un ‘modello’ di riferimento che viene delineato dai costruttori, anche in relazione a chi fa la commissione. L’idea ‘irrazionale’ che accompagna questo modo di agire è quella di trovare la persona ‘giusta’ per il ‘posto giusto’, nel tentativo di raggiungere i massimi livelli di coerenza e adattamento fra persona e azienda. Tanto per fare degli esempi, un servizio on line che si chiama Predictim analizza il linguaggio, le espressioni facciali e la storia on line (post su Facebook, Twitter e Instagram), sui social, delle persone, arrivando a fornire delle valutazioni che permettono di categorizzare gli individui come adeguati e non adeguati, fornendo ‘valutazioni del rischio’ che queste persone possono avere di incappare in comportamenti inadeguati, di mancanza di rispetto, condotte inadeguate, abuso di droghe, ecc.; HireNue analizza tramite algoritmi il tono della voce, i movimenti facciali, le parole scelte, che vengono attuati durante delle interviste video svolte anche considerando domande selezionate dal datore di lavoro. I dati raccolti permettono di assegnare un punteggio alle persone e di formare delle graduatorie.
Il passaggio all’utilizzo degli algoritmi per profilare i lavoratori è breve; si possono considerare il numero di azioni svolte, il tasso di reperibilità, le valutazioni positive ricevute, la prontezza nel rispondere alle richieste, ecc. per predisporre graduatorie, premi, punizioni, accesso a condizioni di lavoro migliori. E da qui partono i tentativi dei lavoratori di ‘difendersi’, con comportamenti che acuiscono la deumanizzazione delle situazioni, come la ricerca di modalità per ottenere valutazioni positive, anche con forme di piaggeria nei confronti dei clienti, o forme di passaparola circa ciò che favorisce il rimanere in cima alla classifica (es. lavorare nei festivi) (Aloisi & De Stefano, 2020), rincorrendo così le regole stesse che stanno alla base di queste situazioni e rimanendo intrappolati in relazioni e rapporti che poco hanno a che fare con la qualità della vita.
Appiattimento ed estrazione di conoscenze e competenze. Se da un lato ci appare chiaro che ad ora le nuove soluzioni tecnologiche sono orientate non solo a innovazioni del prodotto ma soprattutto alla riduzione dei costi del lavoro e alla ricerca di una sorta di potere monopolistico, contrariamente a quanto si sostiene pubblicamente sulla bontà delle tecnologie e sui loro vantaggi sociali, dall’altro possiamo aggiungere, in sintonia con alcuni dati presenti in letteratura, che le tecnologie facilitano anche i processi che riducono le autonomie e gli spazi di discrezionalità dei lavoratori e puntano ad ‘estrarre le conoscenze’ umane per passarle alle macchine (Salento, 2017). Magone e Mazali nel 2016 mettono in evidenza che, ad esempio, nello stabilimento che produce componenti per aerei di Avio Aero di Cameri, i lavoratori si trovano a svolgere mansioni di controllo delle macchine che hanno appiattito le loro competenze, e che nello stabilimento Alstom di Savigliano per ridurre il cosiddetto ‘time-to-market’[8] si è puntato ad estrarre la conoscenza degli operatori e ad introdurla nel processo di digitalizzazione. Il trend che si sta registrando è quello per cui l’automazione non sembra tout court favorire processi di promozione dell’autonomia e delle competenze degli operatori; al contrario si assiste ad una ‘semplificazione’ e riduzione delle attività e ad un aumento delle forme di controllo, da un lato, e di delega alle macchine che sembrano ‘imporre’ le soluzioni da seguire nello svolgimento di un lavoro. A questo riguardo secondo Salento (2018) dobbiamo considerare con attenzione che coloro che progettano ‘le macchine’ hanno valori che non necessariamente si sovrappongono ai valori importanti per tutta l’umanità: è necessario superare questa idealizzazione della trasformazione tecnologica, che spesso per altro avviene nell’ambito di obiettivi di elite economiche e politiche e viene ‘proposta’ come la soluzione a tutti i mali senza alcun coinvolgimento democratico e sottratta ai processi di deliberazione democratica.
Da qui dobbiamo cominciare a riflettere sul tema che l’iperdigitalizzazione non è in grado da sola di aiutare le società a ridurre e fronteggiare questioni via via più cogenti, come l’aumento delle disuguaglianze, la precarizzazione del lavoro e la riduzione della sua dignità, il peggioramento delle condizioni di vita in fasce sempre più ampie della popolazione, e iniziare a ragionare sul necessario superamento della ‘fede cieca’ nella tecnologia.
La filiera della svalutazione del lavoro
Quanto abbiamo visto, la struttura socio-economica, i modelli organizzativi, il tipo di vita lavorativa che si è venuta a creare, spacciata per innovativa e tecnologica, fa sì che si punti a favorire lavoro precario, a svalutare il lavoro, a togliergli valore per poterlo sfruttare, che a sua volta rende difficile ai più migliorare la propria situazione e le proprie competenze, creando un circolo vizioso negativo, con poche persone, altamente qualificate e in pochi ambiti professionali, che possono sperimentare un miglioramento della propria condizione e trarne beneficio. Le modalità per svalutare il lavoro e renderlo più fragile e facilmente aggredibile a discapito dei lavoratori stanno diventando chiari: esternalizzare, con appalti e subappalti, precarizzare, con forme contrattali a breve/brevissimo termine, rendere complessa la rappresentanza, depontenziando la contrattazione collettiva e interagendo con la singola persona, che spesso non conosce quanto viene proposto agli altri (es. tariffe e compensi), ridurre le tutele e metterle in capo ai lavoratori, limitare il reddito, svalorizzare le competenze professionali, aumentando la segmentazione delle prestazioni e facendo in modo che alcune vengano attuate da non professionisti, chiedere sacrifici, aumentare le forme di controllo, agire con azioni discriminative per aumentare le vulnerabilità psicologiche, in particolare verso categorie già a rischio associate a disabilità, genere, età, storie di migrazione (Cigna, 2020).
Si realizza quella che viene chiamata la ‘filiera del disvalore professionale’: parcellizzazione e suddivisione delle diverse mansioni, spezzettamento di ‘processi lavorativi’, sostituibilità delle persone, automazione di parte delle mansioni, riduzione della componente umana e riduzione del personale, riduzione salariale, gestione algoritmica, micro pagamenti.
La digitalizzazione è un fattore molto incisivo in tutto questo: essa si basa proprio sulla frammentazione delle attività lavorative in micro-task da far attuare al computer, agli algoritmi, o in ultima istanza a ‘lavoratori’, interni o esterni (sempre più), che offrono la propria forza lavoro anche attraverso piattaforme digitali (Tubaro & Casilli, 2019; Cirillo, 2019). La frammentarizzazione permette di individuare micro-mansioni, e relativi micro-compensi, che possono essere richiesti a realtà esterne, piattaforme o altre strutture fisiche (agenzie per il lavoro somministrato, che assume il lavoratore, lo invia all’impresa, la quale paga il costo del lavoro e una percentuale all’agenzia; catene di franchising o subfornitura per il lavoro in subappalto), che possono avere a disposizione schiere di lavoratori sempre disponibili, ma tendenzialmente temporanei. E in ogni modo l’esternalizzazione si associa generalmente a condizioni al ribasso, con i lavoratori che hanno salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori, costretti a ‘prendere o lasciare’ (Aloisi & De Stefano, 2020)
Un secondo elemento che è in relazione a questo trend è quello di creare situazioni di lavoro al di fuori del perimetro del diritto del lavoro: di fatto un lavoro che dovrebbe essere autonomo, ovvero autogestito dalle persone in termini di dove, quanto, come, non lo è, perché l’azienda pretende che il lavoro venga svolto in specifici dove, con specifiche modalità, in modo continuato nel tempo. L’autonomia è finta in quanto vengono imposti orari e vincoli gerarchici non compatibili con il lavoro autonomo; in ogni modo permette di risparmiare sul costo del lavoro. Al contempo viene pagato meno e le imprese ci guadagnano relativamente a fiscalità e previdenza, con guadagni specifici che raramente vengono investiti in ricerca e sviluppo. Le persone si trovano in condizioni dove risulta difficile non accettare le richieste pena la fuoriuscita o retrocessione dalle graduatorie, spesso senza grossi preavvisi e con sistemi di notifica invadenti e impersonali (app) (la chiusura del telefono può comportare ritorsioni), e in presenza di forme di contrattazione che negano la mancanza di subordinazione, prevedono azioni di monitoraggio spesso anche invasivi (geo localizzazioni tramite gps, accessi on line, ecc.), si basano su misurazioni della velocità nell’esecuzione (a volte con assegnazione del lavoro a due lavoratori che si contendono il riconoscimento economico), attenzione eccessiva alle valutazioni dei clienti e scarsa attenzione alla sicurezza (scarse informazioni sui clienti, scarsa presenza di dispositivi di sicurezza, che devono essere acquistati dal lavoratore), con la malattia che provoca declassamenti.
Ciò accade in un numero ampio di settori: salute e cura, pulizie, logistica, distribuzione (riders), agroalimentare, dello spettacolo e intrattenimento, turismo, costruzioni, ma anche della creatività e del lavoro cognitivo, del design, dell’editoria, dell’informazione. Ci possiamo chiedere quale lavoro può risultare tutelato. Bologna (2020) ci ricorda che le attività di produzione cinematografica, di video e programmi televisivi, per cinema e tv, hanno il 99% di contratti a breve termine o a brevissimo termine, on demand, con i più giovani disposti ad accettare guadagni inferiori e un numero maggiore di ore di lavoro pur di avere un reddito. Tutto questo per altro si aggiunge a forme degradanti e disumanizzanti da tempo in atto in alcuni settori come quello agricolo. Caruso e Lo Cascio (2020) ci ricordano che in questo ambito le persone con storie di migrazione, oltre a quanto sopra, sono anche inserite in ‘scuole di apprendistato’ affinché possano ben apprendere le regole selvagge del mercato del lavoro; si ritrovano in gironi dell’inferno da cui è molto difficile uscire (se non pagando la ‘liberazione’ per mezzo di persone disposte ad assumerle ‘per finta’ per lavori domestici), rilegati con raziocinio in ghetti che danno poche o nessuna possibilità di riscatto ma solo un tetto e un lavoro condotto in condizioni di estrema precarietà, ricatto, sfruttamento, che non permette altro se non la sopravvivenza. Sono così in aumento le condizioni di lavoro rischiose, la riduzione delle tutele, la mancanza di periodi di ferie e malattie, il passaggio da compensi orari a quelli a consegna che scaricano sui lavoratori i costi dei tempi morti, in un processo che sembra di inarrestabile riduzione della dignità (Maccarrone & Tassinari, 2020) e che si accompagna alle seguenti modalità operative.
Incrementare l’invisibilità. A questo riguardo esemplificativa è la descrizione fatta da Merchant (2019) relativamente ad un futuro centro di stoccaggio del 2034 di Amazon che sembra diventare via via sempre più reale: tanti robot, muletti autonomi, ambiente con scarsa luce, poca aerazione e attenzione per la sicurezza in quanto pensato per le macchine. Il lavora umano non è ancora sparito del tutto ma è diventato quasi completamente invisibile: ci sono persone che fanno le pulizie, che intervengono in caso di rottura di un robot, che controllano i software. Questi lavoratori hanno contratti con enti esterni, fra loro interagiscono poco o per nulla, sono facilmente sostituibili se incappano in problemi di salute o di altra natura, e hanno uno scarso senso di appartenenza al contesto e al gruppo di lavoratori e una scarsa percezione che il loro lavoro dia ‘senso’ dignitoso alla loro vita.
Così possiamo fare altri esempi, come gli alberghi senza reception e i supermercati senza cassieri e senza addetti grazie a sensori, telecamere, codici a barre, con i clienti che pensano di essere in una realtà all’avanguardia e dall’altro con i lavoratori che operano nell’invisibilità, rifornendo gli scaffali, correggendo gli errori delle macchine, per altro operando per enti esterni. Fra gli invisibili possiamo anche ricordare coloro che operando per le piattaforme lavorano a distanza e fanno crescere quegli stessi algoritmi che qui abbiamo più volte nominato svolgendo azioni come categorizzare (o taggare) immagini, ricopiare dati di documenti scannarizzati, riconoscere foto e denominarle, tradurre brevi testi, ricercare indirizzi, editare articoli, correggere bozze, filtrare immagini e messaggi di posta elettronica, ecc. Tutte queste operazioni, svolte da persone sottopagate e spesso a ‘cottimo’, o addirittura da ignari cittadini che per accedere ad un sito devono dimostrare di non essere un robot (reCAPTCHA) riconoscendo ponti, navi, biciclette, ecc., permetteranno di migliorare i servizi di riconoscimento dell’intelligenza artificiale, che prima o poi toglierà loro anche questo lavoro non dignitoso.
Ridurre il significato del lavoro. La parcellizzazione che si associa alla digitalizzazione e la distribuzione delle attività fra uomini, donne e macchine, spezza in parti un processo lavorativo; allo stesso tempo applicazioni, software, sensori, ecc., spesso avviano processi automatizzati che arrivano a descrivere azioni che il lavoratore deve eseguire senza che debba prendere decisioni (riparazioni da svolgere, tipologia e numero di prodotti da aggiungere nello scaffale, ecc.). In questo modo il lavoro si caratterizza per una serie di mansioni o attività specifiche di cui spesso non si conosce l’origine, la finalità e di cui non si vede il seguito; è possibile la perdita di valore e significato, del contributo umano, che viene così svalutato, creando le condizioni per cui si può arrivare a pensare che, dato il poco valore, è legittimo ridurre il compenso e impoverire i contratti, il che ovviamente crea un circolo vizioso che comporta altra svalutazione.
Per altro i processi di riduzione del ‘significato del lavoro’ possono essere anche in relazione a quelle forme estreme di ‘esternalizzazione’, per le quali una serie di attività, nel passato svolte da lavoratori in carne ed ossa, ora vengono svolte da quegli stessi individui che necessitano del servizio: stiamo parlando del ‘do it yourself’, del fai da te, come prenotare appuntamento, fare il check in, prenotare on line una insalata. Anche in questo caso il constatare che le azioni possano essere ‘trasferite’ senza problemi e addirittura essere attuate da ciascuno di noi senza alcuna competenza stimola a pensare che sono attività di poco valore, per le quali non è necessario avere specifica preparazione e che non ha senso pagare. Si aiuta la frammentarizzazione e la svalorizzazione.
Parlarne come se non si trattasse di lavoro. Il processo del disvalore è favorito pure dal linguaggio che viene utilizzato nei nostri contesti sociali. Soprattutto quando si ha a che fare con le attività associate in qualche modo alle piattaforme si punta a parole che ne riducono la ‘dimensione occupazionale’ ed enfatizzino l’attenzione su aspetti come ‘servizi’, ‘consegne’, ‘favori’, così da far pensare a qualcosa che non è lavoro e quindi che non necessita di diritti e protezioni (De Stefano, 2016). Si punta a parlare di ‘lavoretti’ stimolando la banalizzazione di ciò che viene fatto e l’idea che non sono regole necessarie, in quanto è difficile regolamentare ciò che è discontinuo, effimero, di scarso valore. Al tempo stesso si stimola a pensare che le attività dei ‘lavoretti’ vengano svolte, ovviamente scorrettamente, da persone che vogliono solo arrotondare i loro guadagni, che hanno bisogno di quel po’ in più, della ‘paghetta’, sminuendo il ruolo di chi li svolge da un lato e incentivando a pensare che è più che ok prevedere ‘delle mance’, dei costi inferiori, sdoganando i bassi costi, dall’altro. E ancora, l’essere ‘on demand’, a portata di clic, quale risposta alle necessità di una società sempre in movimento e in cambiamento, che non ha tempo, favorisce il pensare ai lavori richiesti come a qualcosa che si può attuare velocemente, senza approfondimenti e tempi di studio, che sono qualcosa di ‘a se stante’, non parte di un processo più complesso. In questo modo passa l’idea nel contesto sociale che non si tratti di ‘lavoro vero’, per il quale, al contrario, sono necessarie regole e compensi adeguati e dignitosi, vale l’idea della complessità, del senso, dell’impegno, della riflessione da parte di chi lo svolge (Soresi & Nota, 2020).
E anche con gli stessi lavoratori e le stesse lavoratrici si utilizza un linguaggio che supporta i trend in atto: relativamente alle attività da svolgere con la piattaforma si offre la propria disponibilità, non si predispongono turni, si indossano abbigliamenti e/o accessori che hanno un brand, non si utilizza una uniforme, ci si logga al posto di iniziare il turno, l’account viene disattivato, non si è licenziati, si è membri di una comunità non di un gruppo di lavoratori e di colleghi. Si dà valore all’autoimprenditorialità, all’autonomia, e non si nomina la subordinazione che si viene a creare. Così i lavoratori stessi vengono intrappolati in formule linguistiche che li porta a pensare che il loro non è un vero lavoro, che si devono gestire bene altrimenti non risultano all’altezza del compito, che devono curare la loro flessibilità per essere motori di un processo innovativo (Aloisi & De Stefano, 2020).
Divulgare una certa idea dei lavoratori e delle lavoratrici. Nel periodo fordista, con la diffusione del capitalismo all’inizio del ‘900, era sufficiente avere dei lavoratori, anche allora poco tutelati, capaci di obbedire, di eseguire i comandi, di procedere passivamente con quanto veniva richiesto. Non era particolarmente importante che sapessero gestire le relazioni con gli altri, che fossero contenti, che si presentassero come particolarmente intelligenti. Ora in questo periodo storico alla passività e all’obbedienza è necessario aggiungere altre componenti, quasi come un ossimoro, che riguardano l’attivazione autonoma, il dinamismo, l’agenticità, l’inventiva, la creatività, la smartness: tutto deve essere presente allo stesso tempo.
La persona deve essere in grado di svolgere con agenticità la ricerca di attività lavorative, assumersene i rischi, creare le condizioni affinché sia possibile svolgere le attività previste, con efficienza ed efficacia, con i dispositivi necessari, riuscendo a soddisfare al contempo gli interessi degli utenti e dei committenti, sorridendo e manifestando positività nel mentre esegue senza lamentarsi le prestazioni assegnate/richieste, velocemente, nonostante tutto, al di là di tutto, meglio di altri, con cui per altro deve competere per poter continuare a svolgere tali attività a vantaggio di un minimo reddito (Pisani, 2020). Deve essere pluriaccessoriato, altamente connesso, e superperformante, votato al multitasking, un efficace ed efficiente imprenditore di se stesso (Nota et al., 2020), per altro in palese contrasto con le sempre più frequenti clausole di esclusività, il dovere di utilizzare strumenti di tracciatura, uniformi aziendali, impossibilità a gestire turni, attività, ecc.
Altre componenti preziose di questa immagine da diffondere socialmente riguardano una visione individualista della realtà e la propensione alla competizione. La persona deve spingere, sgomitare per arrivare ‘prima’, usando tutti i mezzi possibili, fra cui svalutare gli altri, accettare di lavorare ad un euro in meno degli altri, offrire prestazioni al ribasso, rifuggendo da forme di azioni solidali con altri e collettive che fanno perdere tempo e possibilità, hanno poco successo e comportano l’essere perdenti. In questa ottica e per evitare ‘ripensamenti’ è bene anche non avere tempo per riflettere su quanto sta accadendo, essere immersi nel tentativo di sopravvivere e ricercare possibilità, non sapere nemmeno cosa accade intorno a sé, essere senza punti di riferimento anche solo per confrontarsi e conoscere quanto vengono ‘diversamente’ compensate le prestazioni al variare di qualche variabile (genere, età, ecc.). Meno consapevolezza e coscienza critica le persone posseggono meglio il processo descritto può essere favorito.
Spunti per le attività di orientamento
La complessità della situazione che stiamo sperimentando e la gravità della situazione che molte persone vivono ci devono portare a realizzare azioni di orientamento che non ‘aggravino’ tali condizioni e che possano aiutare gli individui a riflettere su quanto sta accadendo, sul fatto che la responsabilità non è solo della persona ma anzi è spesso dovuta a fattori strutturali e scelte deliberate di altri. Dobbiamo uscire dalla logica delle etichette diagnostiche, dei profili psicoattitudinali e dei bilanci di competenze, che puntano a valutare la congruenza tra le caratteristiche e le aspirazioni delle persone, la loro fedeltà, affidabilità ed impiegabilità; dobbiamo smetterla di ricorrere ad algoritmi più o meno sofisticati per soddisfare la richiesta di far incontrare domande ed offerte di lavoro, incominciano a proporre azioni che si ispirano alla giustizia sociale, alla coscienza critica, all’inclusione e all’attenzione al lavoro dignitoso.
Per muoverci in tale direzione, ricorrendo alle procedure narrative e in ottica di Life Designing counseling (Soresi & Nota, 2020), si può fare ricorso all’intervista Attenzione al lavoro in una vita di qualità: Una traccia di intervista per lavoratori o adulti in mobilità e in cerca di occupazione messa a punto proprio in relazione all’emergenza lavoro e alle questioni della precarietà. Questa intervista punta a stimolare la riflessività di persone che si trovano a vivere esperienze lavorative poco soddisfacenti, associate ad incertezza e difficoltà, a proposito del loro modo di concepire il lavoro, la loro progettazione e realizzazione professionale. L’intervista è strutturata in modo da stimolare la massima personalizzazione possibile in ragione delle situazioni vissute dalle persone, evitando utilizzi standardizzati e prevedendo eventuali approfondimenti ed ulteriori personalizzazioni. L’intervista è strutturata in tre parti: la prima è dedicata al tema del lavoro e a come le persone lo descrivono e se lo rappresentano nel loro presente; la seconda fa riferimento alle esperienze che le stesse hanno già maturato, sempre a proposito del lavoro, nel corso degli anni; la terza, infine, propone al cliente di fare un salto in avanti verso il suo lavoro futuro. Nelle battute di avvio l’intervista si propone di far emergere, al fine di analizzarle e valorizzarle, le aspettative e la disponibilità al cambiamento, i punti di forza, le competenze e caratteristiche della persona, La rappresentazione del lavoro e del mercato del lavoro. La seconda parte dell’intervista si propone di ricostruire la storia del cliente ricercando nel suo passato e nel suo presente elementi, visioni, esperienze e risorse che potrebbero risultare utili alla progettazione del suo futuro. Nel corso dell’ultima fase si procede generalmente riassumendo il percorso effettuato assieme al cliente, si elencano prospettive e propositi per il futuro.
Le riflessioni, le sintesi che le persone possono fare, con il supporto del o della consulente, possono essere arricchite da approfondimenti, argomentazioni condivise, letture, testi, che permettono di analizzare i fattori contestuali strutturali, più sopra riportati, che si caratterizzano come barriere alla progettazione del futuro, alla possibilità di sperimentare un lavoro e una vita dignitosi, che contribuiscono a far vivere disuguaglianze economiche e sociali. Di particolare valore sarà anche l’inserire approfondimenti relativi ai temi dei diritti, dell’inclusione e della giustizia sociale, quali strumenti che possono aiutarci a stimolare idee di progettualità del futuro che prevedano un senso di comunità e di solidarietà con gli altri e la propensione ad unire le forze e a lavorare insieme per un futuro migliore (Nota et al., 2020).
Conclusioni
E così, ancora una volta, l’orientamento può avere un ruolo significativo e una valenza sociale se diventa capace di aiutare le persone a non sentirsi responsabili di quanto sta accadendo, se si mette al loro fianco per aiutarle a capire e riflettere su alternative, se contribuisce a difendere diritti. Ovviamente questo richiede una specifica preparazione degli operatori e delle operatrici di orientamento, che devono poter conoscere a loro volta, grazie a percorsi di formazione di qualità, incentrati sui modelli più recenti e aggiornati, quanto abbiamo avuto modo di condividere a proposito di lavoro, di valore e disvalore dello stesso, di processi sociali che sfruttano i lavoratori e il loro operato. La precarietà non è il prezzo da pagare all’innovazione, il diritto del lavoro non si contrappone all’innovazione, la flessibilità decisa dall’alto non è garanzia di crescita, né tecnologia e digitalizzazione rappresentano le uniche forme di progresso sociale. Va stimolata una visione del lavoro che per essere realmente innovativa non può che essere inclusiva, sostenibile, basata sulla giustizia sociale, capace di prevedere forme di superamento dell’impoverimento a cui stiamo assistendo. E per questo si possono realizzare laboratori e percorsi di consulenza che pongano al centro il lavoro dignitoso, la consapevolezza dei fattori che portano a svalutare lavoro e lavoratori, l’aspirare nuovamente ad un futuro di qualità per tutti e tutte (Soresi & Nota. 2020). Abbiamo così il dovere di contrapporci a tale degrado umano e come orientatori e orientatrici di contribuire ad un cambiamento sociale che ci aiuti a costruire nuove società, alla luce del rispetto, dei diritti, dell’equità, della dignità, di un lavoro che sia capace di valorizzare le persone, di mettere al centro l’inclusione e la sostenibilità
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[3] In questo tipo di contratto, per i periodi in cui il lavoratore non lavora ma resta a disposizione del datore, è prevista la corresponsione di una indennità di disponibilità
[4] I settori dove si riscontrano i più importanti esempi di reti di imprese sono quelli alimentare e agricolo. Un esempio è quello della “Strada del Franciacorta”: questa rete di imprese è nata nel 2000 grazie all’impegno di operatori privati (aziende vitivinicole, hotel, agriturismi, enoteche, laboratori di prodotti tipici) e associazioni di categoria ed enti pubblici e si è posta come obiettivo la promozione e la valorizzazione del territorio della Franciacorta (enoturismo, vendita dei prodotti tipici, export verso paesi).
[5] Testo-Carta-dei-Diritti.pdf (cartacgil.it)
[6] Acronimo inglese di Radio Frequency Identification. L’RFID è una tecnologia di identificazione automatica che fa riferimento alla propagazione nell’aria di onde elettro-magnetiche, consentendo la rilevazione univoca, automatica (hand free), massiva e a distanza di oggetti, animali e persone sia statici che in movimento.
[7] Il Natural Language Processing è un ambito di ricerca interdisciplinare che abbraccia informatica, intelligenza artificiale e linguistica; si prefigge di sviluppare algoritmi in grado di analizzare e classificare il linguaggio naturale, scritto o parlato. Si forniscono soluzioni per analizzare la struttura sintattica del testo, associando le parole alle rispettive categorie morfologiche (ad es. nome, verbo, aggettivo), identificando entità predefinite (ad es. persona, data, luogo), individuando associazioni sintattiche (ad es. soggetti e complementi) e relazioni semantiche (ad es. iperonimia). Consente anche di estrarre il significato delle parole in relazione al contesto e alle modalità di utilizzo (ad es. ironia, sarcasmo, sentimento, umore). Si possono quindi individuare frequenze, percentuali, ecc.; si possono fare valutazioni e ulteriori classificazioni, da utilizzare per diverse finalità.
[8] E’ il processo tramite il quale si punta a migliorare i tempi di produzione per rispettare le scadenze o arrivare primi nel mercato e favorire le vendite, spesso ricorrendo a processi di incremento dell’automatizzazione.