Orientare ai sogni e sognare di orientare: la ripresa e la resilienza degli scollamenti di significato
a cura di Ernesto Lodi, Università di Sassari
Leggendo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – PNRR, mi sovvengono alcune riflessioni che voglio provare a condividere con chi si occupa di orientamento. E anche con chi semplicemente lo attraversa o ne viene a contatto e non riesce a scrollarsi pregiudizi e fissità. Un po’ come ci succede con quelle persone che vediamo poche volte e con le quali non abbiamo mai avuto l’adeguata occasione di una relazione reale e concreta al fine di decostruire i pregiudizi formatisi nei loro confronti.
Ciò che segue, premetto, è la mia visione personale dell’orientamento in relazione al documento. Leggendolo, credo sia il caso di dialogare con esso attraverso domande basilari (e ognuno di noi, secondo la propria prospettiva e riflessività professionale, potrà fare anche altre domande e dare ovviamente altre risposte): quale è la funzione dell’orientamento, quando è utile che inizi un’azione di orientamento, quali i suoi scopi, quali gli esiti desiderati.
Provo a rispondere come fossi la personificazione del PNRR. La funzione dell’orientamento è da un lato far proseguire gli studi, magari senza troppi intoppi, dall’altro fare profiling e fare matching tra persona e posto di lavoro (magari perché si pensa che esista un incastro ‘buono’ e un incastro ‘cattivo’ tra le due entità in base a una qualche forma di criterio). Lo scopo (tra l’altro eterodiretto) dell’orientamento allora coincide con la sua funzione. L’esito è indurre le persone nell’investimento nella formazione, la prevenzione della dispersione scolastica/universitaria, il miglioramento delle percentuali di laureati nel paese, l’accrescimento dei tassi di occupazione (soprattutto giovanile), il movimento verso una direzione di carriera alquanto lineare dove far convogliare le persone. Ha un inizio più o meno ben preciso: verso la fine delle scuole superiori/nella transizione formazione-lavoro/forse in terza media. Una visione lineare, ma distante dagli approcci attuali dell’orientamento.
Mi scuserete se utilizzo una visione psicologica (ma è la mia), e forse devo dire anche un po’ ‘antica’, nel dialogare con il PNRR circa le funzioni dell’orientamento (privatela anche di psicologia, se volete, nelle vostre risposte).
Ha una funzione sociale e di comunità, di sviluppo, organizzativa e ‘clinica’ che si compenetrano e che non sono nettamente distinte.
La funzione clinica consiste nel migliorare i livelli di qualità della vita nella relazione individuo/contesto attraverso un agire professionale che faciliti l’emergere delle risorse positive sia delle persone sia dei contesti.
La funzione sociale e di comunità si propone di ampliare il ventaglio di opportunità sentite a propria disposizione delle persone, di non cedere alla facilità con cui si riproducono le disuguaglianze sociali nei percorsi di carriera, di credere nel valore delle diversità, di de-costruzione di stereotipi, di promuovere nelle persone il ri-acquistare voce e senso di attualizzazione all’interno delle proprie comunità di riferimento, di contribuire allo sviluppo delle proprie comunità perché la realizzazione delle proprie aspirazioni e dei propri sogni individuali (o anche il solo poterli fare, conoscere, inseguire) è inestricabilmente legato alla capacità delle comunità di fornire i luoghi dove tali aspirazioni e tali sogni possano prendere forma. Persone che aspirano e sognano, creano comunità capaci di aspirare e sognare, che a loro volta sviluppano persone in grado di aspirare e sognare e comunità più inclusive, solidali e coese.
Ha una funzione organizzativa in quanto si occupa del Sé formativo/professionale, quindi di ruoli e della loro ‘gestione’, delle interazioni tra contesti di vita e lavorativa, di ciò che pensiamo, facciamo, sentiamo nei luoghi organizzativi in vista e per il progresso e il benessere delle persone e delle comunità.
La funzione di sviluppo consiste nel facilitare l’emergere e il concretizzarsi di un percorso di crescita per la persona in tutte le fasi della vita e in tutti i contesti. È una funzione di sviluppo che riguarda anche tutte quelle risorse psico-sociali positive (coraggio, speranza, resilienza, ottimismo, ecc.) che permettono alle persone di crescere durante le avversità piuttosto che soccombere ad esse. Una funzione che può attraversare tutte le altre e sostenerle e pervaderle, una funzione multidimensionale, una funzione che molto ha da condividere con lo scopo.
Lo scopo è il miglior benessere possibile di persone, contesti e comunità, e credo sia sempre più strettamente connesso a un concetto che mi sembra divenuto uno dei nuclei centrali dell’agire professionale dell’orientamento, ovvero il concetto di flourishing: condizione che porta alla completa prosperità, intesa come realizzazione delle proprie qualità entro le dimensioni sociali; insieme di vissuti interni positivi e il funzionamento positivo nella relazione con il mondo; oltre alla realizzazione del Sé, è imprescindibile una relazione costruttiva con la società esterna. Non è un tasso, non è un indice, non è eterodiretto. Parafrasando Seligman (2011) bisognerebbe chiedersi quanto una certa decisione, anche politica come costruire un parcheggio o una scuola, produca un aumento, non di ricchezza economica, ma di flourishing. Il flourishing diventa allora il termometro dello sviluppo delle potenzialità umane e sociali per il benessere di persone, istituzioni e comunità.
L’esito dell’orientamento è il processo di co-costruzione di senso lungo e tra le diverse funzioni tra una persona-un gruppo-una organizzazione-una comunità e un/una professionista che agisca le funzioni dell’orientamento.
Veniamo all’ultima domanda: c’è un inizio desiderabile dell’azione di orientamento? Da quanto descritto prima, no, non c’è se pensiamo ad una età precisa. O meglio si, c’è sempre e inizia quando bambini e bambine cominciano a sognare e ad aspirare, quando formano atteggiamenti, pensieri e comportamenti verso il futuro, quando costruiscono i Sé possibili (e da psicologo ‘positivo’ non credo esista età ‘giusta’ all’estremo opposto, una data di ‘fine’ per l’orientamento, perché sono capacità che non tramontano nell’essere umano). E quei Sé possibili, quei sogni, quei significati individuali e sociali, possono incontrare limiti, vincoli e barriere costruite sulle e dalle disuguaglianze e dalle diverse forme di vulnerabilità individuale e sociale. E sempre più mi ricorda quanti vincoli, limiti e barriere vengono poste all’orientamento da visioni stereotipate e dure a morire: mi sembra di sentire la capacità di sognare e immaginare un orientamento diverso affievolirsi, affaticarsi, appesantirsi, disegnare scenari futuri in cui prospettive e aspirazioni (dell’Orientamento) quasi scompaiono all’orizzonte.
Ciò non significa che l’investimento nella formazione, il lavoro (dignitoso), i tassi di laureati, la precarietà, la disoccupazione, ecc. non siano questioni di grande interesse per l’orientamento. Ma evidentemente non ne possono costituire l’obiettivo principale, anche perché sono il frutto di molteplici interazioni con altri sistemi, per esempio politico, economico, ecc. e di molte altre discipline. Confondere, in maniera estremamente riduzionistica, l’interesse per alcune tematiche con l’identificazione di scopi e obiettivi genera distanze e scollamenti di significati tra livelli che sono evidentemente diversi.
Ci sono però anche barlumi di speranza nel documento, a volte l’orientamento sembra citato ‘tra le righe’ come indissolubilmente legato ai processi di sostenibilità, contrasto alle vulnerabilità, quale azione professionale in grado di contribuire al costituirsi di comunità che siano al contempo strumenti e luoghi di sviluppo. Però poi, approfondendo, ci si rende conto che tutto ciò evapora: l’idea di orientamento che ne viene delineata e concretizzata sa di stantio, sa di vetusto, sa di tutto quello di cui non è fatto il futuro, né le aspirazioni, né i sogni.
Una concezione del genere rischia di diventare una profezia che tristemente si accinge ad auto-avverarsi: l’orientamento non funziona, va riformato perché non produce miglioramenti, quei ‘maledetti’ tassi e quelle odiose percentuali non cambiano mai nonostante gli investimenti nel settore (sigh!) in questi anni. La spiegazione è che forse si conosce e si operano scelte politiche su di un pregiudizio, e con quello si continua a interagire e a costruire azioni su un significato non corrispondente alla realtà scientifica e delle pratiche professionali basate su essa.
Da professionista dell’orientamento mi è capitato in passato di co-costruire una sorta di azione condivisa di disinvestimento dalla formazione universitaria (se così si può definire, ammetto di essere corresponsabile): una ragazza che aveva ardentemente desiderato fare della fotografia il suo lavoro, si era ritrovata per varie pressioni e vincoli sociali e contestuali incastrata in un percorso di laurea che non riusciva né a portare a compimento né a lasciare. Sospesa, sofferente. Aveva anche altre storie da narrare a sé stessa e al suo mondo, ai suoi mondi: su questo abbiamo lavorato. Non so se abbia poi ripreso gli studi o li abbia abbandonati definitivamente. So che una tale ‘curva’ nel percorso di carriera, leggendo il PNRR, sembrerà una cosa quantomeno non auspicabile. A me piace invece pensarla felice, qualunque cosa stia facendo, soprattutto mentre guardo la foto che mi regalò all’ultimo incontro di Orientamento e che campeggia nell’ingresso di casa mia: ancora oggi mi racconta le sue storie, i suoi sogni, le sue aspirazioni, che continuo volentieri ad ascoltare. Storie che in quella visione di orientamento non sembrano avere né spazi, né tempi, né orizzonti.