In diverse occasioni, e anche sulle pagine di questa rivista, mi sono soffermato a sottolineare la rilevanza dell’orientamento e della necessità di ancorarlo a specifici modelli teorici di riferimento dotandolo, al contempo, di programmi e strumenti sufficientemente validati da un punto di vista scientifico.
In effetti, da alcuni anni a questa parte, tentando di anticipare e descrivere il futuro del lavoro, mi sono anche trovato a dover amaramente ammettere che le nostre usuali pratiche di orientamento non sono più in grado di aiutare efficacemente, i giovani soprattutto, a scegliere e a progettare il proprio futuro professionale.
Sebbene le tematiche dei cambiamenti che stanno interessando gli scenari del lavoro siano presenti in pressoché tutti i dibattiti che anche quotidianamente ci propongono i nostri mass media, sembra che di tutto questo vi sia poca traccia nei programmi e negli strumenti di orientamento alla scelta e alla progettazione professionale che in Italia, in particolare, vengono quotidianamente proposti.
Si tratta, a mio avviso, di una grave mancanza dal momento che stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione che, come ci ricorda anche Schwab, (2016) cambierà radicalmente e sin dai prossimi decenni, il mondo del lavoro e dell’economia, la qualità della vita e delle relazioni sociali delle nostre comunità… e se l’orientamento non è o non sarà più in grado di occuparsi di questo… a cosa potrà servire? potrà essere ancora considerato socialmente rilevante ed utile?
Nonostante la pressoché generalizzata consapevolezza del fatto che ci stiamo avviando velocemente verso cambiamenti radicali, la letteratura scientifica in materia di orientamento e ancor più le pratiche che in suo nome vengono realizzate ignorano di fatto, e sorprendentemente, tutto questo e continuano a trattare le tematiche della progettazione professionale come se esistessero ancora, e per tutti, ampie possibilità di scelta e come se fossero ancora validi quei profili professionali che la psicologia del lavoro e dell’organizzazione avevano fondamentalmente predisposto alcuni decenni fa, prima che questa ‘rivoluzione’ apparisse ai nostri occhi.
Con le pagine che seguiranno a questa breve introduzione, desidero rivolgermi agli studiosi, ai professionisti e i responsabili dei servizi di orientamento invitandoli a fare lo loro parte per ridurre lo iato di cui sopra riflettendo a proposito dell’opportunità di continuare a perseverare in concezioni e pratiche di orientamento e di career counseling che continuano essenzialmente a basarsi sul convincimento che sia possibile e vantaggioso ricorrere ancora a misure di congruenza tra le caratteristiche delle persone e le aspettative dei contesti formativi e lavorativi (matching e profiling). In altre parole, in un’epoca in cui le possibilità di scelta e di realizzazione professionale si sono decisamente ridotte e sono molto evidenti i destini di un gran numero di occupazioni lavorative, è ancora utile e deontologicamente corretto continuare a proporli a chi necessita di aiuto nella loro progettazione professionale?
In alternativa alle operazioni di matching, di cosa l’orientamento e i suoi operatori dovrebbero occuparsi per risultare ancora utili e socialmente rilevanti?
A proposito di questi interrogativi, in questo numero, proporrò alcune riflessioni che, da almeno un paio di decenni a questa parte, mettono in discussione la solidità scientifica di questo modo tradizionale di fare orientamento, per proseguire, nel prossimo numero della nostra newsletter, con la presentazione di alcuni progetti e strumenti alternativi.
Parte prima
l’orientamento non può più essere quello di una volta
Come sanno coloro che hanno letto con attenzione alcuni dei contributi che in passato sono comparsi nelle pagine di questa Newsletter, anche la Sio (Società Italiana per l’Orientamento) e il La.R.I.O.S. (Laboratorio di Ricerca e l’Intervento per l’Orientamento alle Scelte dell’Università di Padova) da almeno una decina di anni a questa parte, hanno manifestato la propria preoccupazione a proposito delle difficoltà che le pratiche di orientamento, e persino anche i modelli teorici maggiormente accreditati, incontravano nel risultare in sintonia con i cambiamenti che, in modo sempre più evidente, iniziavano ad interessare anche il mondo del lavoro.
Queste perplessità erano motivate dalla constatazione che la crisi del lavoro, oltre ad influenzare le scelte lavorative e le modalità per ‘orientarle’, stava facendo registrare ripercussioni preoccupanti anche a carico della qualità della vita di fasce sempre più estese della popolazione e delle rappresentazioni del futuro che, a differenza di quanto avveniva nel secolo passato, incominciava ad assumere tonalità sempre più cupe e minacciose.
‘Il futuro non è più quello di una volta’ ci siamo sentititi dire più volte e, questo, a causa di numerose e diverse ragioni e responsabilità, da quelli associate alle innovazioni tecnologiche, alla cosiddetta globalizzazione, all’immigrazione e ai cambiamenti radicali, improvvisi e veloci che hanno interessato e interesseranno il mondo del lavoro che è diventato via via decisamente più vario, incerto, instabile e imprevedibile per un numero sempre più consistente di lavoratori e di persone interessate a trovarvi una collocazione soddisfacente.
Tutto questo è testimoniato, da un lato, dalla permanenza degli effetti deleteri originati dalla grave recessione economica che ha colpito anche quella parte del mondo occidentale che si considerava in grado di controllare e monitorare l’economia del mondo e, dall’altro, dalla presenza di una moltitudine di cittadini che continuano a soffrire a causa della diminuzione delle opportunità di lavoro e dei livelli elevati di incertezza e precarietà che, a differenza del passato, interessano ora anche molte persone appartenenti alla cosiddetta classe media.
Dato che il futuro del lavoro, o almeno di quello che eravamo abituati a considerare, è da alcuni anni profondamente incerto e a rischio, anche le discipline e le pratiche che si occupano di esso sono state costrette ad ammettere di essere anch’esse in crisi e a denunciare la propria irrilevanza ed impotenza di fronte a fenomeni molto più grandi e complessi. È così che, di fatto, il prestigio sociale degli studi e dei programmi di orientamento, soprattutto di quelli di derivazione marcatamente psicologica, è andato via via scemando e sono iniziate, da più parti, operazioni anche coraggiose di critica a quei modelli e a quelle discipline che, a dispetto dei tempi, continuavano ad enfatizzare il tema della scelta del lavoro, dell’autodeterminazione delle persone nei confronti della loro possibilità di progettarsi una professione a misura delle loro caratteristiche ed aspettative di successo.
Si è iniziato così ad affermare che l’orientamento, per sperare di poter avere ancora un futuro, avrebbe dovuto iniziare ad abbandonare con decisione quelle posizioni di neutralità, di equidistanza e di mediazione tra domanda ed offerta, tra le necessità delle Persone e degli Ambienti (nel vocational guidance il modello P-A è stato quasi universalmente abbracciato nei decenni passati!) che, per oltre cento anni, dai tempi di Parsons (1909) avevano di fatto ispirato le riflessioni in materia e determinato anche la fortuna di molte pratiche e strumenti che, con appoggi derivanti ‘da destra e da manca’ (da P e da A) gli specialisti dell’orientamento erano riusciti a mettere a punto e a proporre.
Allora i tempi, però, erano molto diversi… ci si poteva basare su una relativa abbondanza di posti di lavoro e non si intravvedeva la necessità di dover pensare a forme significative di riconversioni lavorative a causa di massicci e repentini cambiamenti che le nuove tecnologie stavano producendo nel mondo del lavoro (vds al riguardo le stime che già da alcuni anni ci avevano proposto Frey e Osborne, 2013, che indicavano che circa il 47% del totale dell’occupazione, statunitense nel loro studio, stava rischiando di essere automatizzato in un futuro molto prossimo, entro, cioè, due decadi). Nel secolo scorso, per il matching e il profiling le cose andavano decisamente bene in quanto allora era ancora possibile operare delle previsioni sufficientemente precise grazie al fatto che sia le persone che gli ambienti formativi e lavorativi apparivano relativamente stabili e prevedibili tanto da consentire persino di garantire pressoché a tutti la possibilità di godere di sicurezza, di occasioni di sviluppo e di carriera permanendo in un medesimo posto di lavoro. Inoltre, sia le persone che gli ambienti lavorativi potevano essere ‘esplorati’, analizzati e valutati e decritti ricorrendo agli stessi parametri (quelli delle attitudini, degli interessi e delle competenze possedute) facilitando, teoricamente almeno, il mitico bisogno di incontro tra domanda ed offerta.
I teorici e i professionisti dell’orientamento maggiormente orientati al futuro hanno, in ogni caso, iniziato ad interrogarsi a proposito di come potevano di fatto aiutare i propri clienti ed utenti (cittadini, lavoratori, ma soprattutto studenti e giovani impegnati nella progettazione dei loro futuri) a diventare maggiormente in grado di resistere con prontezza alle sfide e alle emergenze che incominciavano ad essere chiaramente associate allo stabilizzarsi di quella che è stata variamente definita o come ‘quarta rivoluzione industriale’ (Schwab, 2016), o ‘terza rivoluzione digitale’ (Gershenfeld, Gershenfeld, & Cutcher-Gershenfeld, 2017), o ‘seconda età della macchina’ (Brynjolfsson & McAfee, 2014), o come ‘l’età delle accelerazioni’ (Friedman, 2016), o come, addirittura, epoca dell’apocalisse robotica (Mishel & Bivens, 2017).
Per quanto concerne l’orientamento, i primi segnali di questi cambiamenti di prospettiva sono iniziati con il diffondersi nello scenario internazionale dell’orientamento del modello sociocognitivo che, grazie alle intuizioni e agli studi di Bandura e alle applicazioni della Hackett, di Lent e di Brown (Lent & Brown, 2013; Lent, Brown, & Hackett, 1994) nell’ambito della scelta e della progettazione professionale, ha iniziato a mettere in discussione la solidità di alcune tradizionali ed ‘oggettive’ misure, attribuendo di contro particolare importanza a dimensioni marcatamente ‘private e soggettive’ (le credenze di efficacia e le aspettative di risultato, ad esempio) arrivando ad affermare, come sta facendo appunto Lent (2018) che non ci si può più fidare delle previsioni degli economisti e della tendenza ad utilizzare misure in grado di suggerire profili di adattabilità, idoneità e impiegabilità in questo o in quel comparto lavorativo.
Si tratta di una ‘conclusione’ tutto sommato facilmente condivisibile anche in ragione del fatto che i modelli di sviluppo e, pertanto di futuro, che ci vengono prospettati anche da autorevoli economisti presentano tassi di previsione talmente contrastanti da ridurre effettivamente a poche le previsioni che possono essere oggi avanzate con sufficiente sicurezza. Tra queste ultime non figurano certamente quelle a carico dell’occupabilità (employability) delle persone che si trovano oggi a dover fare i conti con gli ‘appetiti mutevoli’ delle imprese che, tra l’altro, mai come in questi ultimi anni ‘osano’ persino suggerire, ai futuri lavoratori e ai sistemi formativi, quali competenze sviluppare, promuovere o, per lo meno, ‘presentare’ per risultare competitivi ed attraenti ai loro occhi. Sempre più spesso, inoltre, molti professionisti ed agenzie interessate a compiere operazioni di valutazione dell’impiegabilità delle persone si domandano quanta affidabilità può essere attribuita alle capacità che dichiarano di possedere i diversi candidati a questa o quella posizione lavorativa e alla loro volontà di mettere tutte le proprie competenze, effettivamente, a disposizione della produzione e dei datori di lavoro. Tra queste competenze figurano sempre più spesso anche quelle solft, life, smart che ognuno di noi ha maturato soprattutto nel proprio privato, al di fuori dei contesti di formazione professionale, nel corso del proprio tempo libero, nella ricerca di soddisfazioni di valori svincolati dall’esperienza lavorativa. Tutto questo, come noto, costituisce il nostro capitale umano, spesso invisibile come lo considerano persino alcuni testi di economia, alcuni orientatori ed agenzie del lavoro (nazionali, europee e nord americane soprattutto) che suggeriscono di ‘cederlo’ ai datori di lavoro e di dichiararlo apertamente nei curricula e nel corso dei colloqui di selezione.
Ma è questo il futuro che auspichiamo per l’orientamento? È questo il tipo di aiuto che desideriamo fornire agli studenti, ai giovani, ai lavoratori, ai disoccupati e, perché no, a quei pensionati che desidererebbero ancora poter partecipare in qualche modo agli accadimenti che si registrano attorno ad essi?
È effettivamente questo ciò che desideriamo studiare e fare? Rendere le persone più attraenti, più competitive, più facilmente ‘sceglibili’, poco resistenti ai tentativi di invasione ed ‘occupazione’ da parte di forze interessate prevalentemente alle loro performance, agli ‘interessi’ derivanti dall’investimento dei loro capitali, ai benefici ricavabili dall’impiego delle loro competenze?
E cosa può dire e, soprattutto, cosa può fare ancora l’orientamento in favore di coloro che per svariate ragioni risultano sfiduciati, poco competitivi e poco supportati dai loro contesti socioculturali di provenienza? Può essere rilevante, sufficiente, dignitoso presentare loro profili di competenze che posseggono in misura insufficiente o comunicare loro (consigliare) che sono ‘adatti’ unicamente a lavori routinari e a mansioni che richiedono basse competenze che sono destinate, fra l’altro, a scomparire quasi definitivamente nel prossimo decennio?
Al di là di come ognuno di noi potrà reagire a questi interrogativi, una cosa tuttavia mi sembra sufficientemente certa, almeno per il momento… come orientatori, come operatori dei centri per l’impiego, come referenti per l’alternanza scuola-lavoro, come consulenti, professionisti e studiosi del lavoro… non siamo in grado di aumentare i posti di lavori esistenti né di crearne di nuovi particolarmente dignitosi o soddisfacenti, né di rallentare l’avanzata ‘dell’apocalisse robotica’…
Anche noi, in altri termini, come la maggior parte delle persone che cercano un’occupazione o che si interrogano a proposito dei loro possibili progetti professionali, dovremo iniziare ad ammettere, anche apertamente e con una certa onestà intellettuale, che poco o quasi nulla siamo in grado di fare per modificare le forze che di fatto regolano e regoleranno le offerte e le richieste del mercato.
Anche in ossequio a codici di tipo deontologico, noi, come qualsiasi professionista, dovremmo occuparci ed enfatizzare ambiti e fattori che siamo in grado di analizzare, controllare, promuovere, migliorare, nel convincimento che un professionista, tutto sommato, continua ancora ad essere una persona che si occupa intenzionalmente, con strumenti culturali e tecnici adeguati di qualche specifico ambito di intervento tendendo, nel limite del possibile, al miglioramento, al cambiamento, alla riduzione dell’intensità di problemi e difficoltà allo stesso associabili.
Ma se non è nelle nostre capacità aumentare i posti di lavoro e, soprattutto, i ‘buoni posti di lavoro’, e continuando ad assumere che l’orientamento desideri occuparsi di lavoro e di progettazione professionale, quale, considerando ciò che sta accadendo nel mondo del lavoro e della formazione e ciò che accadrà nel prossimo futuro, potrà essere il nostro ambito di intervento almeno sufficientemente dignitoso e rilevante? E quale sarà il futuro di quei giovani che sono interessati a seguire le nostre orme professionali o dedicarsi allo studio delle discipline che ci stanno a cuore?
Alcune ipotesi e proposte a questo riguardo saranno contenute nella seconda parte di questo contributo che comparirà nel prossimo numero della nostra newsletter.
Salvatore Soresi, Università di Padova