Due o tre cose sull’orientamento. Voce del verbo orientare
Orientare e informare non sono sinonimi, anche se per comodità, ignoranza o mancanza di risorse…
a cura di Simone Ariot
Ogni giorno, in ogni scuola italiana, si fa orientamento. E lo si fa in modo formale e circostanziato. La nomina del docente referente all’orientamento, in entrata o in uscita, è una delle prime formalità sancite dai collegi docenti. Per l’organizzazione degli incontri, la gestione dei rapporti con le altre scuole, le associazioni di categoria, le Università e molto altro viene messo a budget una cifra che solitamente non supera i 600,00 euro lordi/anno. Esattamente il compenso di un buon libero professionista per una giornata di lavoro. Il docente referente all’orientamento, però, quasi mai è orientatore. È piuttosto un coordinatore dei servizi di orientamento che, come in una complessa figura geometrica, si collegano tra loro dando forma alle azioni orientative. E in cosa consistono queste azioni orientative? Principalmente in una vera e propria attività di filtro, informazione e comunicazione.
Ma vediamo un po’, nella pratica, qual è il lavoro di un docente referente all’orientamento, focalizzandoci sulle scuole superiori.
Prima di tutto il filtro. Partiamo proprio da qui, anzi dalle mail che ogni giorno riceve e deve appunto filtrare. Centinaia di mail mensili, una decina in media al giorno, con richieste di ospitare delegazioni universitarie per presentare i corsi di laurea. Ormai ogni Università nel raggio di 500 km fa richieste di questo tipo. È il marketing bellezza! A volte le richieste si fanno insistenti, con la capacità di triangolare l’insegnante. Questo, saggiamente, capisce di non poter esaudire le richieste di tutti, ma tra questi tutti c’è chi invia la richiesta doppia: una al docente referente, una al dirigente. Se il dirigente auspica alla concessione di una presentazione, risulterà difficile opporsi. E la politica di non concedere spazio a nessuno, perché altrimenti lo si dovrebbe concedere a tutti, va a farsi benedire. Ha avvio la fase due: l’organizzazione dell’incontro. Trovare il giorno adatto, lo spazio migliore, coinvolgere attraverso l’informazione gli studenti. Una macchina complessa, che prevede il coinvolgimento del personale a.t.a, per il quale si apre un altro capitolo che per ora non vogliamo vedere. Fase tre: l’incontro. Potrebbero però presenziare solo 4-5 studenti, meno della squadra di ricercatori e dottorandi messa in piedi dall’Università stessa da inviare nelle scuole. Un dispiego di forze, energie e malumori collegati a un risultato inesistente, o pari a quella che si potrebbe ottenere consultando qualche sito internet. La fase quattro potremo chiamarla di sedimentazione dell’esperienza di orientamento, ma da quanto appare si verifica un altro effetto: l’ubriacatura e la conseguente confusione.
I ragazzi ascoltano, magari fanno domande, seguono video, interpretano infografiche, si confrontano tra loro. Risultato? Ancora più confusi. Punto e a capo, si riavvia l’operazione con un altro incontro e un altro ateneo o facoltà. Il docente referente, in sostanza, si è occupato di filtrare e organizzare delle esposizioni. Lo studente si è occupato di ascoltare e selezionare. Proprio l’opposto di quanto servirebbe.
Orientamento è infatti un verbo che dovrebbe essere coniugato al modo riflessivo, parlando quindi di orientarsi e sapersi orientare, attività possibile se la si intende come percorso, forse ad ostacoli, ma con alcune indicazioni ben evidenti. Partendo dall’ascoltarsi. Prima di ascoltare chi vuole vendere o proporre qualcosa, infatti, i ragazzi dovrebbero imparare ad ascoltare loro stessi. E ancora prima a guardarsi. E ancora prima a sentirsi. Parole dense di significato, che fanno pensare ad una visione forse un po’ fricchettona e spirituale della vita, ma in realtà fondamentale per imparare ad orientarsi. Attenzione però. Per imparare serve qualcuno che possa insegnarlo, e questo qualcuno dovrebbero essere gli orientatori. E anche qui si apre un altro capitolo. Perché gli orientatori, se esistono, non sono necessariamente gli insegnanti. Se lo sono, non tutti gli insegnanti sono orientatori. Nel migliore dei casi, in una scuola, possiamo trovare un docente con queste competenze, anche se a volte non sa nemmeno di averle. E se le avesse, per come si gestisce l’orientamento, non saprebbe nemmeno cosa farsene. Ancora una volta, quindi, capiamo quanto sia fondamentale la riflessione sulla qualità docente. Ma anche sulla qualità del tempo che questi docenti dedicano alla scuola e, in questo caso, all’orientamento.
Formare all’orientamento significa quindi assumere un atteggiamento favorevole all’ascoltarsi, che di fatto non si attua solo in un momento preconfezionato, magari inserito in agenda, ma si diluisce nel corso degli anni. E qui entra in gioco la grande paura dei docenti, anche di quelli che le competenze, o almeno la predisposizione, potrebbero avercela. Tutto questo porta via ore… sottrae tempo al famoso programma, e non importa se da almeno 15 anni non esistono più i programmi, ma le indicazioni nazionali. Non importa se qualsiasi persona di buon senso può rendersi conto che i contenuti diventano nulli, superati, inutili addirittura se poi non ci si orienta per poterli utilizzare e direzionare nel modo giusto. In quel momento, quando il docente deve fare i conti con le ore dedicate all’orientamento, centellinate solitamente tra quarta e quinta, l’imperativo categorico è solo uno: lavorare sui contenuti per arrivare all’esame di Stato preparati. Tutto il resto, come direbbe la canzone, è noia. A maggior ragione torna utile l’idea di un percorso di orientamento, che coinvolge più docenti, e che dura un intero quinquennio non necessariamente cadenzato da momenti in cui le varie Università mettono in atto i loro strumenti di Marketing.
Un orientamento ad ampio raggio, che dura nel tempo, caratterizzato non solo da specifici momenti ma da un’attenzione al modus operandi, caratterizzato da un atteggiamento di attenzione verso lo studente, la sua dimensione e, non ultima, verso il mondo che cambia (e non solo il proprio, piccolo e mutabilissimo territorio).
Un orientamento che non sia più caratterizzato dalle fiere che vanno tanto di moda, di cui in Veneto abbiamo il codex optimus, momenti in cui migliaia di persone accorrono a stand colorati e sgargianti. E nemmeno da quei temibili momenti in cui si testa la propria capacità di superare i temibili test d’ammissione alle facoltà che, oramai, sono tutte e numero chiuso. O almeno che non sia caratterizzato esclusivamente da queste attività, ma che ne diventino parte dopo aver realizzato percorsi in cui al centro non c’è un corso di studio, una professione, o ancor peggio dei dati statistici, ma la persona nella sua dimensione più reale e consapevole. Per fare ciò, ovviamente, servono insegnanti orientatori motivati, che abbiano vissuto su di loro un orientamento positivo, che abbiano saputo mettersi in gioco e non solo subire un consiglio orientativo conseguente a una qualche prova di verifica, che siano curiosi di esplorare insieme allo studente le sue potenzialità. Altro termine importante, potenzialità. Importante perché è dalle potenzialità che si muove la motivazione e dalla motivazione si accresce la potenzialità. E per capire quanto serva investire su un orientamento che vada incontro alle potenzialità e alla motivazione, basta aprire gli occhi e rendersi conto di quante persone, ogni giorno, svolgono un lavoro per il quale non si sentono motivati e nei confronti del quale, certamente, non sono stati orientati nel modo che fino a qui abbiamo descritto come corretto. 10% infatti è la percentuale (bassissima) di persone che si sentono coinvolte e realizzate professionalmente. Una percentuale ridicola, dannosa e controproducente.
Da questo dato, infatti, ha senso pensare all’orientamento come attività che dev’essere realizzata bene. Non solo per il diretto interessato, ma per tutta la comunità. Perché una persona che ha saputo orientarsi bene è, prima di tutto, una persona più consapevole della strada che dovrà percorrere, più disposta a mettersi in discussione (perché abituata a guardarsi dentro, alla base dell’orientamento) e quindi più realizzata. Quindi una persona migliore, di cui la società non può che averne bisogno.
Simone Ariot
è docente di italiano e latino al liceo Fogazzaro di Vicenza, dove è referente all’orientamento e all’alternanza scuola lavoro. Giornalista pubblicista, collaboratore di testate locali e nazionali, svolge l’attività di consulente aziendale nell’ambito della formazione e della comunicazione, occupandosi in particolare di ideazione e organizzazione di percorsi di team building e sviluppo di piani editoriali. E’ laureato in lettere all’Università di Padova e in giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. E’ diplomato alla scuola italiana di life e corporate coaching.