di Massimo Bellotto
1. Introduzione
La psicologia si occupa tradizionalmente più di malessere che di benessere: intende studiare, valutare, curare i sintomi del malessere (depressione, ansia, inquietudine, ecc.) e fornire risposte al disagio che le persone manifestano. Così facendo, implicitamente considera il benessere come assenza di malessere, analogamente a come la salute viene intesa come assenza di malattia (nonostante documenti di istituzioni internazionali e nazionali sanciscano una più evoluta concezione di salute, di sviluppo e di bene).
La qualità della vita, o il benessere soggettivo, ha trovato legittimazione e nuova espressione con il passaggio alla società post-industriale, in epoca post-moderna, con il tramonto dell’antico antiedonismo di matrice cattolica e della seriosa austerità di matrice comunista. Il benessere, lo star bene, l’essere benestante si è slegato in qualche modo dal sentimento di colpa che lo accompagnava e diviene il catalizzatore dei desideri. Il focus si sposta dalla soddisfazione dei bisogni (variamente intesi) alla realizzazione dei desideri.
Ciò riguarda il mondo del lavoro, il mondo dei consumi, tutta la vita personale e sociale e interpella anche la professionalità di chi opera nell’orientamento.
Alcuni costrutti connessi a quello di benessere costituiscono oggetto di ricerca e di intervento in psicologia: empowerment e locus of control, autostima e self efficacy, identità personale e sociale. Ma per precisare il significato attuale del termine “benessere” è opportuno evidenziare come fosse inteso nei decenni passati, distinguerlo da costrutti contigui quali “ricchezza”, “felicità” e “salute” e riconoscere il suo connotato relazionale già intuito nell’antica riflessione sapienziale e filosofica, ora ben presente nella ricerca scientifica prodotta dalle discipline psicologiche.
2. Pubblico e privato
A partire dagli ormai lontani anni Settanta del secolo scorso, le socialdemocrazie europee hanno portato il concetto di benessere dalla sfera privata a quella pubblica: lo Stato assume l’onere di realizzare il benessere sociale come diritto di cittadinanza.
Questa concezione, di tipo politico-collettivo, viene messa in crisi negli anni Novanta – sostanzialmente dopo l’abbattimento del muro di Berlino – da orientamenti di tipo neo-liberista che privilegiano il versante privato e individuale centrato sulla cura del corpo e sull’estetica, sulla cura della psiche e della salute.
Permane tutt’ora una certa tensione tra una concezione che connette il benessere alla sfera pubblica (una dimensione sociale di bene comune, legata all’ambiente e all’azione dello Stato) e una concezione che lo connette piuttosto alla sfera privata (impegno individuale per il proprio benessere).
3. Ricchezza e benessere soggettivo
Un primo concetto contiguo a quello di benessere, che è bene mantenere distinto, è quello di “ricchezza”.
Già Aristotele distingueva la crematistica dall’economia: lo scopo dell’economia è vivere bene, lo scopo della crematistica è produrre ricchezza. E quando la ricchezza da mezzo diventa il fine, il vivere bene – oggi diremmo il benessere – non viene conseguito.
La cultura obbiettivista in cui viviamo è attualmente dominata da assunti economici per cui l’idea di benessere tende a essere strettamente legata a quella di ricchezza, intesa come reddito, status, privilegio nel poter disporre – più di altri – di beni e servizi. Di qui la concezione di benessere come qualcosa di oggettivo, misurabile dall’esterno secondo criteri di tipo sociologico che producono graduatorie, ad esempio circa la qualità della vita nelle diverse città, sulla base di indicatori relativi allo stile di vita più o meno agiato della popolazione, al livello di reddito e di istruzione, al lavoro, alla fruizione di opportunità di svago, di cura e di socializzazione. Di qui anche la preoccupazione, diffusa in tutto l’Occidente, per una diminuzione del benessere dovuta all’attuale crisi di efficacia del nostro assetto sociale nella produzione e distribuzione di ricchezza.
Secondo un altro punto di vista, è possibile concepire il benessere come qualcosa di soggettivo, come un vissuto che – per quanto connesso alla ricchezza e all’affluenza di beni, più che alla povertà e alla carenza di risorse – costituisce una polarità terza rispetto all’asse che connette i due poli ricchezza e povertà.
Sul benessere soggettivo la psicologia ha molto da dire, e in effetti ha detto molto, spostando il focus del well being dal benessere al sentimento di benessere.
Agli inizi di questi studi in Italia c’è il lavoro di Enzo Spaltro, che nel 1995 costruì un questionario volto a indagare il sentimento di benessere, a partire dalle percezioni e dai costrutti empirici dichiarati dalle persone intervistate, e individuò 11 dimensioni atte a descriverne i possibili connotati. Successive ricerche hanno confermato e ampliato la conoscenza circa gli aspetti intrapsichici, relazionali e sociali che concorrono al benessere soggettivo, pervenendo a modelli integrati e complessi.
Permane il problema della misura, in quanto si fa riferimento a stati interni di natura soggettiva, includendo componenti cognitive/valutative piuttosto che affettive/emozionali. Le analisi psicometriche delle scale maggiormente utilizzate hanno mostrato buone caratteristiche di validità, affidabilità e un buon grado di coerenza interna; rimane l’eventualità di un complementare approccio fenomenologico, che si avvale del colloquio più che del questionario per ascoltare e comprendere il mondo interno nell’altro.
Il benessere soggettivo viene inteso come esperienza emozionale positiva e come presenza di soddisfazione nei confronti della propria vita. Si considera dunque l’esperienza interna del soggetto secondo una prospettiva prevalentemente individualista che studia i processi psichici e l’influenza che su di essi hanno fattori o variabili esterni. Più recente è il riferimento a processi propriamente psicosociali che le prospettive relazionali e costruttiviste pongono a fondamento dell’esperienza soggettiva del benessere.
La componente affettiva indica le emozioni che i soggetti sperimentano durante la loro vita quotidiana (entusiasmo, orgoglio, rabbia, vergogna, tristezza, ecc.). La soddisfazione è l’esito di un processo di valutazione della propria situazione in riferimento a determinati standard personali (aspettative, desideri) nei vari ambiti di vita (lavoro, famiglia, tempo libero, gruppi sociali, ecc.).
Per quanto concerne l’origine del sentimento di benessere e i fattori che lo influenzano, lo studio delle variabili sociodemografiche relative a condizioni di vita oggettive si è evoluto nello studio di fattori psicologici (personalità, valori, scopi) e dell’interazione tra la persona e il suo contesto (relazioni, sostegno sociale). Il modo in cui le persone percepiscono e spiegano gli accadimenti del proprio mondo ha un ruolo importante nei sentimenti di malessere/benessere; per comprendere tali modi sono di aiuto le teorie dell’attribuzione, del confronto sociale e dell’adattamento. Più propriamente, il benessere soggettivo ha a che fare con i bisogni, i valori e gli interessi del singolo individuo e in questo senso è strettamente connesso con gli scopi che il soggetto intende perseguire.
In particolare, è centrale il tema dei valori: che cosa è importante per le persone nei diversi ambiti di vita, nelle successive fasi del ciclo di vita, nelle specifiche aree geoculturali di appartenenza. Le persone normalmente attribuiscono importanza alla ricchezza, al reddito elevato, ma la realizzazione personale, l’autonomia, la qualità delle relazioni e altri valori spesso assumono un’importanza ancora maggiore, divenendo quindi scopi che le persone desiderano perseguire. La percezione di avere una gerarchia di scopi (un orientamento valoriale), la sensazione di far progressi in tale direzione, e ancor più il raggiungimento dei propri obiettivi forniscono significato e direzione all’esistenza. Il verificarsi di queste condizioni dà fondamento a una valutazione positiva della propria vita e al relativo benessere soggettivo, ben più della sola ricchezza materialmente intesa.
4. Felicità e benessere
Un secondo costrutto contiguo a quello di benessere, che conviene mantenere distinto, è quello di “felicità”.
Il suo significato è affine a quello già considerato di ricchezza e coerentemente con ciò la comunicazione pubblicitaria fa intravedere possibili esperienze di felicità mediante il senso di privilegio legato a oggetti, al possesso, all’avere materiale che ci illude di essere privilegiati rispetto ad altri. In effetti, il termine felicità deriva dal latino felix, la cui radice fe– significa appunto abbondanza, ricchezza, prosperità. Forse è un termine che si adatta alla cultura nordamericana più che a quella europea: per noi la felicità sembra un obiettivo troppo ambizioso o irrealistico, uno stato ideale associato a singoli momenti che il caso, l’amore o la fortuna ci possono donare mentre, più modestamente e più realisticamente, il nostro obiettivo è vivere bene, contenti.
A parte concezioni più radicalmente pessimiste e tragiche (la vita intesa come malattia mortale che si trasmette per via sessuale, o l’umanità intesa come virus che distrugge l’ecosistema terrestre e simili) e pur senza rassegnarsi a vivere in una valle di lacrime, in molti sappiamo che il dolore e l’inquietudine fanno intrinsecamente parte della vita umana, e che è già un risultato importante se riusciamo a vivere in modo sereno ottenendo qualche soddisfazione. Per noi la felicità sfugge sostanzialmente al nostro controllo, mentre il benessere può essere l’esito del nostro impegno, delle nostre scelte di vita e di lavoro, delle relazioni che instauriamo a livello interpersonale e sociale.
Tale concezione attribuisce al benessere un significato affine a quello che veniva attribuito alla felicità nelle dottrine eudemonistiche dell’antichità classica, che indicano l’etica per una vita realizzata. La felicità, intesa come esperienza di appagamento totale, può accadere, mentre il benessere si deve costruire ed è quindi più saggio progettare e realizzare quest’ultimo lasciando al caso, alla provvidenza o al destino, l’auspicato avvento di momenti felici. Salvo far proprio l’aforisma di Oscar Wilde, secondo cui “la felicità non è avere ciò che si desidera, ma desiderare quello che si ha”.
Alcuni parlano di felicità anche in ambito lavorativo, ma forse anche in questo caso è opportuno parlare di benessere oggettivo e soggettivo. Con questo termine ci si riferisce alla coerenza tra motivazioni o valori lavorativi e ruolo professionale/organizzativo che si intende svolgere, l’analisi e l’intervento che il soggetto può fare sui fattori che influenzano la propria soddisfazione lavorativa, i modi di percepire, sentire e interagire che la persona può assumere per gestire al meglio la propria vita lavorativa, oltre che familiare e sociale.
5. Salute e benessere
Un terzo concetto contiguo a quello di benessere, ma da esso distinto, è quello di “salute”.
È diffusa l’idea che la salute sia una condizione o una componente del benessere, e nella letteratura c’è talvolta confusione o sovrapposizione tra psicologia della salute e psicologia del benessere. In effetti, come la povertà, anche la malattia ha a che fare con il malessere, ma concepire il benessere come qualcosa di soggettivo lo svincola in qualche modo dall’asse salute-malattia.
In questo prospettiva mi pare che poco abbiano a che fare con il benessere le attuali mode focalizzate sul fitness e il well being in senso marcatamente estetico e salutistico: una lotta impari contro l’invecchiamento e la morte, talora animata da fantasie di onnipotenza. Una cosa è tenersi in forma con diete e palestre, o godere delle coccole di un buon massaggio, altra cosa è cercare nella prevenzione statistica della malattia e nella prestanza fisica il modo di gestire i problemi esistenziali della propria vita.
Il benessere soggettivo, più che con la salute nel senso medico del termine o con l’assenza di malattia, ha a che fare con l’accettazione di sé, con il piacere, con la valorizzazione della propria dimensione corporea entro i vincoli realistici che il ciclo di vita consente. Grazie ai progressi della farmacologia e della tecnologia abbiamo a disposizione un gran numero di farmaci che migliorano le nostre condizioni di salute, il sistema sanitario nazionale offre in molti casi buoni servizi di diagnosi, cura e riabilitazione; la prospettiva di vita dunque si allunga e le condizioni migliorano e ciò ha a che fare con il benessere. Ma la qualità della vita trova altrove il proprio fondamento, il vissuto soggettivo di benessere trova altrove – rispetto allo star bene dell’organismo – le occasioni e le opportunità per essere esperito e coltivato, e ciò apre alla grande questione della dimensione propriamente relazionale del benessere.
6. Antiche intuizioni
A questo proposito, prima di riferirmi alle conoscenze prodotte dalla ricerca scientifica, vorrei fare una breve digressione sulla conoscenza presente nella nostra antica tradizione sapienziale.
Mi riferisco al TaNaKh, la versione originaria ebraica nel testo biblico. Qui i termini contigui “bene” ed “essere”, riferiti alla condizione umana, compaiono per la prima volta in Genesi 2,18 laddove l’ElohIm YHWH, progettando l’uomo da realizzare poi storicamente, ne indica i tratti essenziali dicendo: “non è bene che l’uomo sia solo” (letteralmente: “non è cosa buona che sia l’uomo in sé diviso”).
La versione greca e poi latina del testo, cioè la versione a noi più familiare, traduce queste parole con riferimento al rapporto uomo-donna, ma il termine ebraico IShaH presente in questo contesto, oltre che donna e sposa, significa anche comunità, nazione, popolo, gruppo, cioè una dimensione sociale che viene edificata prendendo il lato forte di ciascuno, una dimensione collettiva che viene costruita e istituita per fungere da aiuto e da guida, che l’uomo possa avere davanti a sé come punto di riferimento. In questo senso, il bene-essere dell’uomo poggia sulla membership e sulla coesione sociale, il mal-essere (l’insicurezza, il torpore) consiste nel suo essere in sé diviso, isolato, separato, affidato a se stesso. Anche a prescindere da ogni connotazione religiosa, questo testo di oltre 2500 anni fa mi sembra molto suggestivo: invita a riflettere sull’opportunità – per stare bene – di andare oltre una concezione individualista, dove il singolo soggetto persegue il proprio benessere in modo autoreferenziale.
Totalmente indipendente da questo testo, e di poco successiva, è la riflessione filosofica prodotta nella Grecia classica da Platone che nel Cratilo (419, D6) discute l’etimologia di alcune parole tra cui “benessere”, in greco euferosìne. Collega tale termine a eufrosìne (gioia) e a sìnferon(conveniente), e dal significato originario di tali parole trae quello di benessere, che pertanto indica il movimento ordinato dell’anima quando è in accordo con le cose, che produce azioni convenienti e confacenti.
Anche qui dunque, alle origine del pensiero occidentale, il benessere viene inteso non come uno stato bensì come un moto, un processo di relazione, un accordo tra il soggetto e il suo mondo esterno.
7. La dimensione relazionale
La dimensione relazionale del benessere è presente nella ricerca e nell’intervento psicologico: sappiamo quanto è importante la relazione con il proprio lavoro, con l’organizzazione in cui opera, con le altre persone (familiari, colleghi, amici) e quanto è connesso con il benessere il sentimento di fiducia e di speranza che accompagna le relazioni positive. Con riferimento al benessere soggettivo, forse conviene distinguere tra relazioni sociali e relazioni interpersonali.
Il sentimento di benessere risulta correlato all’esperienza di soggetti nell’ambito di diversi ruoli sociali, al senso di appartenenza – a un gruppo, un’organizzazione, una comunità – che svolge una funzione importante per la costruzione della propria identità personale e sociale. Le relazioni con i colleghi, con i famigliari e con gli amici, offrono la possibilità di ricevere e di dare sostegno sociale. Quindi la quantità e la qualità della propria rete di rapporti ha molto a che fare con il benessere soggettivo, specialmente in situazioni di stress e di difficoltà. E ciò sembra valere in tutte le culture (forse più in quelle collettiviste e meno in quelle individualiste) in quanto su di esse si fondano i processi di valutazione.
La capacità di avere relazioni sociali soddisfacenti, supportive, conferma l’autostima e la self efficacy, instaura cioè una sorta di circolo virtuoso tra mondo interno e mondo esterno. In particolare, la capacità di prendersi cura degli altri, di essere d’aiuto, di fornire più che di ricevere supporto attiva il vissuto di autorealizzazione e il relativo sentimento di benessere. Ciò riguarda i ruoli genitoriali e molti ruoli lavorativi; ad esempio, riguarda chi svolge attività di orientamento instaurando relazioni dalle quali i propri interlocutori possono trarre vantaggio: quando ciò accade, è una fonte di soddisfazione e di benessere psicologico anche per il professionista.
Oltre alle relazioni sociali, anche le relazioni più propriamente interpersonali sono importanti per il benessere, lungo tutto il ciclo della vita. A prescindere dalla funzione di sostegno reciproco che pure esse svolgono, le interazioni piacevoli e la semplice compagnia producono benessere affettivo. Ciò riguarda l’amicizia, la solidarietà e anche le relazioni animate dal desiderio d’amore e dall’erotismo. L’intimità, il piacere sensuale e sessuale nelle sue varie forme ed espressioni, costituiscono una componente importante della qualità della vita, anche se poco studiata dalla psicologia che si occupa del benessere.
La qualità delle relazioni dipende dal sentimento di fiducia che si instaura dal sentirsi accolti e amati come persona, e consente l’opportunità di amare: un’opportunità che – insieme a quella di lavorare – dà senso all’esistenza.
La sapienza antica, l’esperienza personale e la ricerca scientifica concordano – ciascuna a proprio modo – nell’attribuire alle relazioni interpersonali e sociali una funzione costitutiva sia del malessere che del benessere.
8. Orientamento
In conclusione, è sensato affermare che l’orientamento ha poco a che fare con una concezione edonista e materialista del benessere, mentre ha molto a che fare con una concezione umanista che affonda le sue radici nella nostra cultura occidentale. È una concezione che tende all’autorealizzazione, alla coerenza con i valori o i fini cui le persone attribuiscono importanza, alle condizioni relazionali e ambientali che favoriscono lo sviluppo personale e lavorativo. Il sentimento e la percezione di benessere-malessere nella propria vita, da parte delle singole soggettività, connette tra di loro le dimensioni rispettivamente intrapsichica, relazionale e sociale in cui si declina l’esistenza di ciascuno.
L’orientamento è una relazione di consulenza che facilita il cambiamento accompagnando l’analisi del rapporto tra mondo interno e mondo esterno e i relativi processi di decisione e azione. L’orientatore porta nella relazione il suo sapere scientifico nomotetico e la sua esperienza idiografica, il cliente porta il suo insostituibile ed unico sapere intorno a sé, che metterà in discussione all’interno della relazione d’aiuto in vista di un cambiamento desiderato.
Date queste premesse, dunque, il lavoro di orientamento fornisce anche a chi lo svolge una buona opportunità per implementare il proprio benessere: occuparsi del benessere di altri è forse il modo più intelligente per realizzare anche il benessere di sé.
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