Che ne sarà dell’orientamento nel Recovery Fund?
Salvatore Soresi, Università di Padova
Dopo la pandemia, la formazione e il lavoro non saranno più quelli di una volta… stando così le cose dovrà cambiare anche l’orientamento e la gamma dei supporti che andrebbero offerti a quanti (persone, imprese, istituzioni, agenzie e contesti) potrebbero incontrare difficoltà nello scegliere e nel progettare il proprio futuro formativo e professionale. L’orientamento che viene generalmente praticato in Italia, e che continua a basarsi essenzialmente sul profiling, sulla valutazione dei requisiti di accesso alla formazione e al lavoro, appare ormai decisamente obsoleto e non più in grado di contribuire significativamente alla costruzione di futuri di soddisfacenti per tutti. C’è bisogno di nuovi paradigmi teorici di riferimento, di nuove pratiche e di tanta ricerca per la diffusione, anche in Italia, di un orientamento inteso come dispositivo di prevenzione e come presidio di giustizia sociale. È questa la strada che viene ormai indicata anche dalla più recente e specialistica letteratura internazionale alla quale anche gli amministratori, le agenzie e i servizi di orientamento italiani dovrebbero ispirarsi.
Ho letto con piacere in corriereuniv.it che il nostro governo è intenzionato ad inserire l’orientamento tra i temi del Recovery Fund e che, di esso, se ne occuperà il MIUR insieme al Ministero dell’Istruzione e del Lavoro e delle politiche sociali. Si tratta di un compito certamente impegnativo, che potrà essere ricordato come meritorio se riuscirà effettivamente ad avviare significativi cambiamenti sulle modalità con le quali, in Italia, l’orientamento viene generalmente trattato e, soprattutto, praticato.
A proposito di questa preoccupazione, basti ricordare che da noi, a differenza di tanti altri paesi europei, non esiste ancora una laurea in scienze dell’orientamento, che il numero dei ricercatori universitari che si occupano di esso è particolarmente sparuto e che, a livello professionale, sono decisamente pochi coloro che operano nelle nostre scuole, università e centri per l’impiego, possedendo quei requisiti minimi che consentirebbero loro di iscriversi alla Società Italiana per l’Orientamento (laurea quinquennale e formazione post lauream specifica) o di partecipare, in Europa, a qualche importante gara di selezione di orientatori.
L’assenza di un ancoraggio ad una seria cultura dell’orientamento traspare, di fatto e in tutta evidenza, in gran parte di quei documenti, anche ministeriali, che parlano di competenze più o meno trasversali, di smart e soft skills e che, con un linguaggio burocratico-amministrativo auspicano pure l’impiego di sempre più sofisticati algoritmi, indici di idoneità, di impiegabilità ed adattabilità delle persone alle aspettative di efficienza e ‘fedeltà’ dei diversi contesti formativi e lavorativi. In effetti, anche se non dichiarato, il modello dell’orientamento che continua di fatto ad essere utilizzato anche da tanta ‘psicologia del lavoro e delle organizzazioni’, ricorda ancora l’opera di Parsons (1909), che indicava come selezionare gli operai, e l’esagono di Holland (1973) di quel famoso psicologo dell’esercito statunitense che, magari senza ricordarlo e citarlo, continua ad ispirare e realizzare tutta quella ‘profilazione’ che viene prodotta per orientare-individuare ‘l’uomo giusto al posto giusto’ senza al contempo dedicare analoghe attenzioni alla ‘bontà’ e vivibilità dei contesti formativi e lavorativi all’interno dei quali collocarlo.
E ciò che continuano a fare da noi molti Centri per l’impiego, l’ANPAL, Alma Laurea, la Fondazione Agnelli, e tanti servizi universitari che dichiarano di ‘occuparsi, ‘in entrata’, di tante matricole e, in uscita, con specifici servizi di placement di tanti nostri neolaureati. In tutte queste occasioni le azioni di orientamento si ispirano ancora a quelle visioni delle professioni e delle attività lavorative che, dagli Stati Uniti, dal Bureau of Labor e dal 1939 fino all’edizione del 2020 del sistema O*NET[1], continuano a suggerire di approcciarsi alle professioni in termini di conoscenze, abilità, capacità e competenze ritenute valide allo svolgimento di mansioni, funzioni ed attività lavorative precedentemente esistenti, conosciute e descritte in modo più o meno operazionale da ‘esperti’ del lavoro e di job analysis.
In poche parole, sebbene si continui a dire che i lavori del futuro saranno decisamente diversi da quelli conosciuti, sembra che si continui ad orientare con visioni e metodologie di un passato piuttosto lontano sia da un punto di vista teorico che metodologico. Ne fa fede il fatto che nei portali dell’orientamento a cui molti giovani vengono incoraggiati a rivolgersi e in molti dei documenti che questi stessi producono, non c’è traccia dell’esistenza di altri possibili orientamenti di cui la letteratura internazionale si è da tempo occupata: non si fa cenno, ad esempio, alla visione evolutiva dell’orientamento di Super, o a quella socio-cognitiva che con Lent e Brown ha applicato alle tematiche della scelta e della progettazione professione il costrutto delle credenze di efficacia di Bandura, né, tanto meno, a quelle che si interessano degli stili (appresi) di decision making e problem solving professionale (Mann e Friedman, Paterson, Gati), o alla visione costruttivista di Savickas e, tanto meno, a quegli studiosi del futuro, della complessità e della cosiddetta ‘pianificazione casuale’ che, tra l’altro, rifiutando visioni lineari e riduttivistiche dello sviluppo e della ‘maturazione professionale’, risulterebbero particolarmente adatti ai tempi di crisi che stiamo vivendo.
Se il governo e i ministeri coinvolti saranno effettivamente interessati a promuovere l’orientamento riconoscendogli spessore di tipo scientifico e una significativa rilevanza sociale[2] dovranno, innanzitutto, promuovere una nuova (almeno per l’Italia) concezione dell’orientamento che oltre a valorizzare i contributi offerti dalle prospettive di cui sopra, dovrà già, da ora, caratterizzarsi soprattutto in termini di presidio di giustizia sociale e di dispositivo in favore di uno sviluppo, di una crescita o, meglio di un progresso, effettivamente sostenibile, soddisfacente ed inclusivo per tutti.
Espressioni come giustizia sociale, sviluppo ed inclusione dovrebbero, in altri termini, essere utilizzate più spesso anche dagli orientatori, stando anche a quanto sembrerebbe trasparire dai documenti che accompagnano il Recovery plan for Europe che, oltre ad auspicare un’unione economica e monetaria più equa, invitano a considerare, proprio nella stesura dei progetti per far fronte alle emergenze post covid, quel ‘pilastro europeo dei diritti sociali’ che, con estrema facilità, potremmo considerare anche come altrettanti ancoraggi per un nuovo orientamento effettivamente interessato ad operare in favore:
a) delle ‘pari opportunità anche a proposito dell’accesso alla formazione ribadendo il diritto di tutti di riceverne di buona qualità e in contesti inclusivi anche per partecipare pienamente alla società e per gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro (almeno legale e dignitoso);
b) delle ‘condizioni eque di lavoro’ che debbono garantire flessibilità e sicurezza, equilibrio tra attività professionale e vita familiare, ambienti di lavoro sani e sicuri anche a proposito della protezione di tutti i dati sensibili delle persone[3];
c) di ‘protezione sociale e inclusione’ che, per essere effettivamente tali, dovrebbero essere, senza se e senza ma, e non necessitare di particolari ed ulteriori specificazioni e differenziazioni (v. Soresi, 2020).
Si tratta di tre pilastri importanti che chi fa orientamento dovrebbe tenere presenti soprattutto quando si propone di stimolare l’analisi delle criticità, delle emergenze che già caratterizzano il presente e di invitare a pensare a modi possibili per affrontarle e ridimensionarle cercando di coglierne, come sostengono anche Facioni (2018) e Poli (2017), senza pregiudizi e luoghi comuni, i segnali per avviare possibili sviluppi e per puntare ai cambiamenti auspicati come suggerisce ormai tanta psicologia della scelta e della progettazione professionale (per una rassegna v. Nota et al. 2020).
All’orientamento, per far sì che si trasformi effettivamente in un dispositivo di prevenzione in favore del benessere e della soddisfazione professionale, non gli si può però chiedere di intervenire in modo sbrigativo ed esclusivamente nelle fasi di transizione quando le pressioni temporali di tipo essenzialmente amministrativo (scadenze per le iscrizioni a scuole e prove di ammissione, per l’inclusione in elenchi per l’accompagnamento e l’occupazione, ecc.) sono particolarmente insistenti. Gli deve essere concesso il tempo necessario per insegnare ad aspirare, per con- dividere e con-vincere, per riflettere e prendersi cura del futuro in modo che sia proprio quest’ultimo e non solo il passato o le determinazioni socio-economiche, ad indicare i comportamenti e le scelte da attivare. E’ ciò che da tempo, d’altra parte, suggeriscono quanti si occupano della tematica della ‘previsione’ e dell’anticipazione del futuro, che incoraggiano a ‘ragionare’ ricorrendo al ‘what…if’, al ‘cosa potrebbe accedere se’ e ad immaginare tanti e diversi scenari possibili considerando sia i ‘dati disponibili’ ed osservabili, ma anche e soprattutto, come aveva detto De Maria (2011) prima che il Covid-19 facesse la sua comparsa, quelli non visibili, non reali, ma dotati di senso per coloro che li hanno immaginati come fatti emergenti dalle condizioni future che potrebbero verificarsi.
Qui, in questi luoghi di ‘pratica dell’orientamento al futuro’ sarebbe pertanto opportuno dare tanto tempo ai tempi della riflessività e della partecipazione all’orientamento al futuro, garantire libertà di visioni e partecipazione, dar voce a nuove aspirazioni, come direbbe Appadurai[4], e a coinvolgenti processi di coscientizzazione, come, al riguardo, potrebbe dire anche Freire (1974; 2002) , o come suggerirebbero Foucault (1971) e Deluze (1989), parlando di dispositivi di prevenzione e promozione di benesseri comuni[5]. Tutto questo in quanto è necessario che l’orientamento, da dispositivo di valutazione dell’adattamento, dell’impiegabilità, delle congruenze tra domande ed offerte, di neutrale mediatore delle possibili relazioni persona-ambiente, dovrà presentarsi come dispositivo di esplorazione, di produzione di desideri, di visioni, di immagini e scenari difficili da codificare, afferrare e inserire in processi di profiling o all’interno di qualche diversa tipologia di candidati a tutte quelle competizioni che pretendono di decretare le idoneità di persone e gruppi, le vittorie e le sconfitte, gli accessi e i respingimenti a proposito di questo o a quel ‘posto’ di formazione o lavoro. Attenzione, però: i presidi e i dispositivi possono essere progettati e posti in essere con finalità molto diverse, anche per esercitare controlli e promuovere assoggettamenti. Ne fanno fede i tempi che stiamo vivendo che, come ha osservato Agamben (2006), si presentano proprio come “una gigantesca accumulazione e proliferazione di dispositivi” interessati a garantire lo status quo, il conformismo e quell’accentuato individualismo presente anche nelle più recenti rivisitazioni di concezioni di tipo neo o ordoliberalismo[6].
L’orientamento, per trasformarsi in dispositivo di giustizia e liberazione, necessita anche di luoghi idonei al confronto e all’interazione interpersonale, luoghi di apprendimento condiviso, non di uffici che, con i loro standard e tempi amministrativo-burocratici, non facilitano il lavoro di gruppo e attenzioni human centered in grado di realizzare quel partecipatory design che sin dai ‘ruggenti’ anni Settanta veniva invocato per mobilitare gruppi ed avanzare richieste di cambiamento. In quegli uffici e in quei centri che valutano le diverse ammissibilità è difficile che venga riconosciuto e sostenuto il ‘diritto’ di scegliere e di dedicarsi ad un lavoro che, oltre ad essere legale, dovrebbe essere anche ‘sensato’ a tal punto da essere ritenuto, sotto varie angolazioni, un ‘buon lavoro’, un ‘lavoro buono’ che non può più essere considerato un lusso che solo pochi possono concedersi.
Così, come alla Pedagogia degli oppressi di Freire è stata riconosciuta un’enorme valenza politica, lo stesso si dovrebbe fare verso quella sorta di orientamento della liberazione a cui si incomincia ad aspirare e che, privilegiando le fasce più deboli della popolazione, oltre a dimostrare il possesso di strategie di intervento e di strumenti particolarmente sofisticati e robusti da un punto di vista tecnico e metodologico, porta con sé implicitamente ed esplicitamente il desiderio e la volontà di denunciare le situazioni sociali maggiormente problematiche e di operare in favore di un radicale cambiamento.
Forse, parafrasando anche Bell Hooks (2020) che a proposito di come fronteggiare le massicce tendenze all’esclusione che si constatano ancora all’interno dei sistemi educativi e formativi, anche noi potremmo invocare un ‘orientamento impegnato’, in grado, cioè, non solo di aiutare le persone a scegliere ciò che potrebbe risultare utile per un proprio futuro formativo e lavorativo soddisfacente, ma capace di avviare anche, con gli strumenti di analisi e di stimolazione della riflessività a proposito di ciò che sta accadendo e che probabilmente accadrà, occasioni di ‘apertura ed impegno’ nei confronti di ciò che potrebbe essere considerato ‘comune’, pubblico e non solo individuale e privato. Si tratta di un’importante raccomandazione, molto pertinente quando, come orientatori, siamo portati a promuovere, con un linguaggio prettamente economico e neoliberalistico, bilanci, entrate, ‘capitali umani’, punti di forza, competenze chiave, correndo il rischio che l’orientamento, si trasformi di fatto in un dispositivo di narcisistica ed egoistica lotta, di competizione ed affermazione di sé, dell’essere imprenditori di se stessi.
Favorire, con l’orientamento, la consapevolezza e il senso critico, proprio nell’accezione di Freire, non è semplicemente un invito a ‘conoscere se stessi’ e il mondo circostante; si tratta di mettere in azione dispositivi di emancipazione e pratiche di anticipazione di scenari futuri più equi ed inclusi per tutti ribellandosi a quanti si attendono indicazioni per la scelta di studenti particolarmente idonei o di lavatori ‘fedeli’ e altamente produttivi.
Se sarà diverso, l’orientamento riuscirà a proporre valori diversi da quelli dell’impiegabilità e del gareggiare ad ogni costo, facendo proprie anche le parole che Martin Luther King indirizzava agli americani, quando li invitava dar corpo ad una vera e propria rivoluzione di valori per ‘passare al più presto da una società orientata verso le “cose” ad una società orientata alle persone. Quando le macchine e i computer, le ragioni del profitto e i diritti di proprietà sono considerati più importanti delle persone, allora diventa impossibile sconfiggere – aggiungeva Martin Luther King – tre giganti: il razzismo, il materialismo e il militarismo…’ (1968). Per testimoniare questi valori, le discipline dell’orientamento dovrebbero imparare ad abbattere i confini che ancora le caratterizzano (psicologia, pedagogia, economia, sociologia, antropologia, ecc.) in quanto i futuri e ‘l’apprendimento di quelli possibili’ richiedono ibridità, sconfinamenti, divergenze; c’è bisogno, forse, di meno algoritmi, meno economia matematica, meno psicometria in favore di un numero decisamente più consistente di analisi personalizzate, di procedure qualitative, di più economia etica e sociale, di più ‘psicologia positiva e coraggiosa’, di più (in una sola espressione) filosofia della condivisione che faccia effettivamente parlare assieme, ricercare ed operare e non solo per il proprio e prossimo vantaggio.
Non è questa la sede per descrivere e presentare attività, procedure, strumenti ed azioni da porre in essere in questa direzione. Può essere qui sufficiente ricordare che nei progetti di orientamento che si ispirano alla giustizia sociale (Nota et al. 2020; Hooley, Sultana e Thomsen (2018) si invitano i partecipanti/utenti ad aspirare a svolgere lavori dignitosi e prestigiosi, pensando, ad esempio, agli obiettivi 2030 dell’ONU o all’ ‘Economia della ciambella’ di Kate Raworth che, tra l’altro, richiama anche tutti i saperi che concorrono a definire tanti e diversi settori scientifico- disciplinari così cari al nostro MIUR e all’ANVUR e, al contempo, gli ambiti di lavoro sui quali i nostri studenti dovrebbero essere chiamati a riflettere e ad operare nel corso delle attività di orientamento. Si pensi, ad esempio, quanto “buon” orientamento, quanta “buona” formazione e quanto “buon” lavoro può generarsi, sollecitando gli studenti a misurarsi con i problemi connessi alla difesa della biodiversità, alla riduzione di tutte le forme di inquinamento, ma anche, alle formazioni e alle occupazioni possibili in favore della qualità della salute, dell’istruzione, del lavoro dignitoso, della pace, dell’equità, dell’inclusione, della diffusione delle nuove strumentazioni digitali, della vivibilità degli ambienti di vita (abitazioni, città…), etc. etc.
Si tratta, in poche parole, di non chiedere più ‘Cosa vuoi fare da grande?’, ma ‘Di quali emergenze intendi pre-occuparti?’; ‘Verso quali valori nutri passioni ed interessi?’; “Di quali problemi intendi occuparti, a quale missione 2030 intendi partecipare?”; “Cosa vorresti apprendere ancora e di nuovo, in cosa vorresti perfezionarti, affinché il tuo lavoro, anche in tempi di crisi, possa essere riconosciuto importante, indispensabile, prestigioso’ .
Sostenendo l’aspirare a ridurre disagi, ingiustizie e disuguaglianze, la pianificazione di azioni, e la precisazione di quelle che, in altre sedi, sono state definite intenzioni formative e professionali (Soresi e Nota, 2020) l’orientamento, oltre a promuovere l’agency individuale, diventa anche sociale e solidale, per interessarsi anche a tutti quei ragazzi e quelle ragazze che stavano a cuore a don Milani, a quei lavoratori a cui pensava spesso Olivetti nell’immaginare l’organizzazione e la gestione delle imprese e del lavoro, a quegli oppressi a cui si dedicava Freire, e a tutte le persone a rischio di emarginazione e malesseri che stavano a cuore ad Appadurai o, ancora, a tutte le vittime di ogni forma di razzismo e disparità che stanno a cuore a Bell Hooks. Si tratta, pertanto, di un orientamento che respira meno finanza e meno economia, meno pedagogia interessata alla meritocrazia e ai talentuosi, meno psicologia interessata alla certificazione speciale delle differenze, ma, di contro, che è deciso a riservare più attenzioni ai più poveri, a quelli che la scuola espelle, a quella psicopedagogia che si occupa di come insegnare ad aspirare e a prepararsi ad affrontare incertezze e minacce e, perché no, a come manifestare la propria indignazione per come a volte vanno le cose.
L’orientamento non può più stare in mezzo, non può più essere quel neutrale trattino che tanta letteratura internazionale poneva tra le necessità delle persone e quelle degli ambienti, dovrà dichiarare da che parte sta ed avere il coraggio di dirlo chiaramente.
Riusciranno i nostri, ritornando al Recovery Fund, a sostenerlo? Speriamo…
Bibliografia
- Agamben, G. (2006). Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma.
- Appadurai A. (2013). The Future as Cultural Fact. Essays on the Global Condition, Verso, New York.
Bell Hooks (2020). Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà. Milano: Meltemi
De Maria, G.M. (2011). Prefazione. In Volli, U., Leone, M, Ieri, oggi, domani. Studi sulla previsione nelle scienze umane. Roma: Aracne. - Deluze, G. (1989). Qu’est-ce qu’un dispositif? Paris: Edition du Seuil.
- Facioni, C. (2018). L’utopia possibile: perché riscoprire il contributo di Adriano Olivetti, Futuri, 10,
Foucault, M. (1971). L’Ordre du discours, Paris: Gallimard. - Freire, P. (1974).Teoria e pratica della liberazione, Roma, Ave, Freire, P. (2002). Pedagogia degli ppressi, Torino, EGA, 2002).
- Holland, J.L. (1973). Making Vocational Choices: A Theory of Careers. Englewoods Cliffs, NJ, Prentice-Hall.
Hooley, T., Sultana, R. Thomsen, R. (2018). Career Guidance for Social Justice: Contesting Neiliberalism. London: Routledge King, M.L. (1968). Where Do We Go From Here? Chaos or Community. Boston: Beacon Press. - Nota, L., Soresi, S., Di Maggio, I., Santilli, S., Ginevra, MC. (2020). Sustainable Development, career Counselling and Career Education, London: Springer International Publishing.
- Parsons, F. (1909). Choosing a Vocation. Boston: Houghton Mifflin.
- Poli R. (2017), Introduction to Anticipation Studies, London: Springer International Publishing
Soresi, S. (2020) Dire le diversità, Padova: Messagero. - Soresi, S., Nota, L. (2020). L’orientamento e la progettazione professionale. Bologna: il Mulino
[1] Si tratta del famoso Occupational Information Network che, in modo gratuito, propone centinaia di definizioni di attività occupazionali per aiutare sia studenti che persone in cerca di lavorio, ma anche aziende e professionisti a comprendere il mondo del lavoro contemporaneo. L’O*Net, ed analoghi dispositivi europei, esistono già e vengono per lo più annualmente aggiornati… non c’è bisogno che L’Anpal o altre agenzie ‘ne inventino di nuovi’!
[2] La rilevanza sociale dell’orientamento potrebbe essere misurata considerando anche il numero di situazioni di disagio che riesce effettivamente e precocemente ad intercettare, evitando di limitarsi ad attendere che siano esse a presentarsi ‘spontaneamente’ ai propri sportelli. Molti studenti, i Neet e gli Elet – i giovani che non studiano e non lavorano e quelli che anni che dopo la Scuola Secondaria di I° grado non si sono avviati ad alcun tipo di tipo di formazione professionale – come molti disoccupati e precari, non necessitano solo di uffici territoriali di orientamento che li attendano e che dichiarano di essere disposti ad accoglierli, ma, forse, anche di una sorta di ‘orientatori di strada’, interessati ad intercettare più precocemente possibile le situazioni di maggior rischio di disagio ed esclusione.
[3] Questo soprattutto in un’epoca in cui, col dilagare del profiling, e non solo nell’orientamento, ma anche e soprattutto in ambito sia economico-commerciale che di controllo socio-politico, dove, questa ‘profanazione’ appare sempre più frequente ed intrusiva.
[4] Le aspirazioni, però, anche a detta di Appadurai, NON maturano nella solitudine o nell’isolamento, ma hanno bisogno di interazioni tra persone e contesti, richiedono partecipazione, pazienza e volontà di manifestare assieme ad altri contro le ingiustizie e in difesa dei propri diritti.
[5] Nell’accezione attribuitagli da Michel Foucault un dispositivo è ‘un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni (…), leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche (…). Questo viene ribadito anche da Deluze (1989) che, al riguardo, usa la metafora della matassa, ‘un insieme multilineare, composto di linee di natura diversa. (…) di vettori o tensori ‘ (p. 11). Sembra, quasi, che parlino dell’orientamento e della sua complessità e multidisciplinarietà!
[6] Anche l’orientamento, purtroppo, può essere ancora utilizzato come dispositivo di controllo e, nello specifico, dei processi di inserimento scolastico e professionale. Si pensi, ad esempio, a come può essere strumentalizzato nei cosiddetti consigli di orientamento, nelle valutazioni normative cui sistematicamente, ormai, fa ricorso l’Invalsi, in tutto quel profiling che continua ad essere utilizzato per stimare l’impiegabilità delle persone, la loro disponibilità ad adattarsi alle richieste proventi dai mercati della formazione e del lavoro e a produrre consumatori sempre più ingordi ed insaziabili. Non consola constatare che si tratti di un rischio che l’orientamento condivide con molti dispositivi digitali, imposti di fatto dalla nota globalizzazione economico-finanziaria e dal primato dell’economia su pressoché tutti gli ambiti di vita delle persone e dei loro contesti.
Si ringrazia ROARS per aver autorizzato la pubblicazione di questo articolo sulla Newsletter SIO (Article link https://www.roars.it/online/?p=7572)