Capacità e competenze dei œformatori

di Giorgio Sangiorgi

Abstract
La tendenza al superamento del valore legale dei titoli di studio, la crescente trasformazione dei contenuti delle mansioni e l’indeterminatezza dei contesti organizzativi hanno da tempo stimolato l’interesse per uno studio del lavoro basato sull’individuazione delle conoscenze, delle capacità e delle competenze necessarie al suo svolgimento.Questo insieme – oltre a rappresentare un patrimonio individuale – consente di definire in maniera innovativa i requisiti di una professione: ciascuna attività, nella sua concreta manifestazione organizzativa, richiede un particolare mix di conoscenze, capacità e competenze cui dovranno corrispondere gli elementi posseduti dal lavoratore. Questo approccio, applicato alle figure professionali – e tra queste anche i “formatori” – richiede la definizione delle capacità e delle competenze che debbono essere espresse nello svolgimento del compito: se infatti la formazione, in quanto processo organizzativo (nell’organizzazione o per l’organizzazione) persegue la propria qualità attraverso numerosi fattori obiettivi – relazionali, organizzativi, gestionali, economici – e attraverso l’adozione di una prospettiva metodologica riconducibile all’intervento psicosociale e al cambiamento individuale, diviene centrale la figura del formatore che assume il ruolo di agente di cambiamento.
Peraltro, il medesimo criterio di studio e di definizione delle competenze associate a una specifica professione potrebbe utilmente essere adottato anche riguardo alla figura dell’orientatore. Anche in questo caso si tratterebbe di analizzare in maniera analitica le singole attività svolte, giungendo alla definizione di un insieme di unità e di elementi di competenza che presiedono alle singole attività professionali svolte.

Premessa
Non sorprende la crescente attenzione che riceve il tema della qualità della formazione e delle competenze dei formatori quando è ormai riconosciuto – da parte delle imprese, delle parti sociali e delle stesse istituzioni – che, senza un consistente adeguamento delle professionalità disponibili nel mercato del lavoro, il nostro sistema produttivo non sarà in grado di sviluppare innovazione, competitività, produttività e di far fronte alle ormai visibili sfide della globalizzazione. Non è un caso che la formazione sia un tema ricorrente nel dibattito politico/istituzionale, in numerose normative nazionali e regionali, nelle strategie delle parti sociali, nelle dichiarazioni di imprenditori e dirigenti; ma più ancora nelle aspettative degli stessi lavoratori, o almeno dei più consapevoli, che avvertono il rischio dell’inadeguatezza o dell’obsolescenza professionale. Semmai, stupiscono talune attese miracolistiche, quasi che la formazione avesse il potere magico di trasformare da sola, senza un parallelo intervento sulle motivazioni e sugli elementi di contesto, l’effettiva occupabilità individuale, riportando tutti al nastro di partenza e a pari opportunità. In realtà, spesso ci si dimentica che la formazione – una sorta di passerella tra l’oggi e il cambiamento atteso – non può colmare grandi distanze, non può sanare grandi ritardi, non può (e probabilmente non deve) cambiare valori, priorità e scelte di vita individuali.
Comunque la formazione esiste e impegna, nelle sue diverse accezioni1, un numero consistente di persone, cospicue risorse economiche, numerose organizzazioni pubbliche e private. Ogni giorno, disposte in un’aula, sedute intorno a un tavolo o, raramente, in un laboratorio, migliaia di persone lavorano per apprendere, che è poi un particolare tipo di cambiamento individuale, ascoltando la voce e gli insegnamenti del “formatore”. Si tratta di un professionista “quasi onnipotente” e assai poco studiato: mentre infatti la formazione, sin dalla sua origine, è stata convenientemente definita nelle sue varie fasi operative, nelle sue metodologie, nei processi che promuove e gestisce, questo non è avvenuto intorno alla figura del formatore. Siccome il formatore di fatto esiste, e quindi potrebbe avere poco senso chiedersi se fare formazione corrisponda a un profilo professionale o invece a una modalità specifica per esprimere una professionalità, cercheremo di individuare alcune caratteristiche del modello teorico della formazione, per ricavarne elementi che portino alla definizione delle capacità e delle competenze che debbono essere possedute da chi svolge interventi formativi.

1 Con il termine formazione sono indicate in maniera aspecifica una molteplicità di situazioni che differiscono anche grandemente quanto al setting, alla tipologia dei partecipanti, all’obiettivo formativo. In senso aziendale, la formazione consiste in programmi di breve durata rivolti ai membri della propria organizzazione sui temi di volta in volta oggetto di interesse; esiste poi la formazione professionale, la formazione degli adulti, la formazione continua, ecc., i cui contenuti largamente spaziano dall’addestramento professionale allo sviluppo di particolari abilità. La scuola e l’Università spesso preferiscono sostituire la parola insegnamento con quella di formazione.

Gli esordi
Non è certo un fatto nostalgico ricordare qui i primi passi della formazione nel nostro Paese, quando ha assunto alcune delle caratteristiche che conosciamo oggi. La formazione è una delle tante figlie del ’68. Prima di allora, nelle organizzazioni vigeva il principio dell'”uomo giusto al posto giusto”, che escludeva la necessità? di dover provvedere a costruirne la professionalità, essendo responsabilità della selezione il reperimento di risorse in grado di svolgere i compiti richiesti: semmai, in presenza di mutamenti nelle mansioni perlopiù originati da adeguamenti tecnici o da nuovi macchinari, le Aziende mettevano in atto iniziative di addestramento2, finalizzate a mettere in grado il personale di svolgere i nuovi compiti. Ovviamente, queste iniziative riguardavano essenzialmente la manodopera o, al massimo, i capi di prima linea, in sostanza coloro che svolgevano compiti operativi ed esecutivi, ma non i quadri e i dirigenti, ritenuti in grado di ricoprire efficientemente il proprio ruolo, anche in presenza di cambiamenti, che, peraltro, a tecnologia costante, non erano in effetti significativi e tali da richiedere sostanziali nuove competenze, se non appunto a livello esecutivo. Va anche ricordato che siamo ancora nel tempo dell’organizzazione scientifica del lavoro, che, a questo proposito, prevedeva la presenza di specifiche professionalità dedicate allo studio del lavoro e alla ricerca delle soluzioni organizzative più appropriate da consegnare ai capi, che restavano sostanzialmente nel ruolo di controllori del processo e di occasionali problem solver di fatti tecnici.
Il ’68 è stato molte cose e non è certo questa la sede per discuterle. Per ciò che qui interessa, va soprattutto ricordato che i grandi sconvolgimenti manifestatisi in maniera diversa in numerosi Paesi, nel nostro hanno visto una particolare caratterizzazione che ha saldato il movimento degli studenti con i lavoratori occupati nelle grandi industrie, soprattutto del nord. Nelle Aziende, il cambiamento ha significato subito mettere in discussione e quindi in crisi sostanzialmente due principi di base sui quali si fondava la cultura organizzativa: il principio di autorità, investito da una confusa ma potente domanda di partecipazione, e il principio della neutralità “scientifica” dei modelli organizzativi e, più in generale, della stessa organizzazione, messa in discussione dalla riscoperta della natura intrinsecamente conflittuale del rapporto di lavoro e del significato unilaterale e dunque repressivo dell’organizzazione stessa, di fatto al servizio, nel conflitto, della parte dominante.
Non entreremo nel merito di queste e di altre importanti questioni aperte dal movimento dei lavoratori3. Era però quanto bastava per mettere in crisi il modello di funzionamento delle organizzazioni e in particolare il ruolo dei quadri e dei dirigenti, posti davanti a un cambiamento di cultura, di valori e di comportamento al quale erano assolutamente impreparati. Non erano in grado di comprendere la “contestazione”4 che era esplosa nel mondo del lavoro e, tanto meno, di governarla.
Una delle risposte strategiche delle imprese è stata l'”invenzione” della formazione: un’azione dunque rivolta ai quadri e ai dirigenti con lo scopo di fornire loro capacità interpretative dei complessi fenomeni sociali e culturali, prima ancora che aziendali, in atto; una formazione destinata ad accrescere le loro possibilità di fronteggiare in maniera adeguata la situazione e di riprendere il controllo – organizzativo – delle risorse umane. Una formazione di contenuto psicosociale, focalizzata sulle capacità, sul ruolo, sulla leadership, sul gruppo, sulle dinamiche del cambiamento: ovviamente i primi formatori non potevano che essere “psicosociologi”, cioè professionisti che, indipendentemente dal titolo di studio, potevano vantare una solida preparazione psicosociale e psicologico-organizzativa.
Nel ’69-’70 nascono nelle grandi aziende le prime unità organizzative dedicate alla formazione; nel ’72 si costituisce la Scuola di Psicosociologia dell’Organizzazione, che organizza corsi biennali per psicologi del lavoro e dell’organizzazione; nel ’73 nasce l’Associazione Italiana Formatori (AIF), che riunisce committenti e fornitori di formazione. Nascono le prime società di consulenza che propongono corsi di formazione “a catalogo”. Si diffonde un metodo, o meglio un approccio, basato su tre assunti.

  1. Occorre cambiare: le regole e i comportamenti, l’organizzazione e gli stili di comando, i ruoli e i rapporti, ecc. Ma contemporaneamente, in maniera sincrona, psicosociale, appunto: un cambiamento che riguardasse solo le dimensioni soggettive senza produrre cambiamenti oggettivi sarebbe manipolativo e, viceversa, un cambiamento oggettivo, strutturale, che non modificasse le dimensioni soggettive sarebbe repressivo.
  2. Il cambiamento deve essere progettato il più vicino possibile al problema che vuole affrontare, sapendo che, una volta risolto, se ne apriranno altri e così via; ogni problema è la manifestazione visibile del conflitto organizzativo, a sua volta ineliminabile: occorre dunque un grande coinvolgimento dei lavoratori che debbono riappropriarsi della capacità progettuale e riscoprire la propria cultura implicita del lavoro, anche per distinguere i veri dai falsi problemi.
  3. Perché i lavoratori, indipendentemente dal livello e dalla posizione organizzativa, partecipino effettivamente al cambiamento, è necessario un intervento a livello gruppale5teso a far emergere i problemi, i conflitti, le motivazioni, i valori: il gruppo, infatti, contemporaneamente favorisce e supporta il cambiamento individuale e facilita il cambiamento organizzativo.

Si apre una stagione interessante e feconda. È il momento delle molteplici sperimentazioni, delle nuove forme di organizzazione del lavoro – job design, work group, ecc. – che hanno caratterizzato la ricerca di modelli tendenti a superare gli assunti tayloristici e che hanno consentito di modificare molte regole della vita organizzativa: lavorare in azienda non sarebbe comunque più stato come prima. Ma è anche il momento di un diffuso sforzo di sensibilizzazione e di cambiamento di mentalità, di cultura, di atteggiamenti, che ha coinvolto subito migliaia di lavoratori, quadri, dirigenti, chiamati a confrontarsi, sotto la guida di un conduttore definitosi agente di cambiamento, con se stessi, con i colleghi, con l’organizzazione. È anche, per altri versi, una stagione interessante per la messa a punto di modelli di intervento, tecniche, metodologie, strumenti: gran parte di ciò che è disponibile oggi è stato studiato e messo a punto sin da quegli anni.
Verso la fine degli anni ’70 questa fase si chiude, le grandi aziende rispondono alla diffusa richiesta di una nuova organizzazione del lavoro con l’introduzione massiccia dell’automazione industriale, cioè con la fabbrica che ha meno bisogno di manodopera diretta e quindi che ha minore conflitto organizzativo. In sostanza, ancora una volta, la tecnologia determina il modello organizzativo, il quale a sua volta determina i rapporti di lavoro.
Sarebbe interessante seguire il processo e, andando avanti negli anni, esaminare, ad esempio, gli effetti dell’introduzione dell’informatica e poi del PC negli uffici; oppure valutare le ristrutturazioni aziendali, la contrazione dei livelli gerarchici e quindi del numero dei capi; o ancora studiare l’evoluzione delle direzioni del personale. O, soprattutto, approfondire il ruolo del sindacato, particolarmente a livello delle rappresentanze di base, nella costruzione del nuovo modello di relazioni industriali che è andato affermandosi in quegli anni. Non dimenticando, tra l’altro, che sono gli anni di piombo, delle BR, delle azioni esemplari. Ma finiremmo troppo lontani …
Per tornare al tema che qui interessa, gli agenti di cambiamento, a partire dagli inizi degli anni ’80, si sono, per così dire, divisi in due gruppi: il gruppo più consistente si è dedicato al cambiamento umano, ottenuto principalmente attraverso la formazione. L’altro ha continuato a occuparsi principalmente di cambiamento organizzativo, pur non rinunciando agli interventi sulle persone quando necessari per il loro coinvolgimento attivo nel processo. In questo modo, si sono delineate due specifiche professionalità, pur non prive di ampie connessioni. Infatti, a occuparsi di cambiamento organizzativo sono rimasti gli psicologi del lavoro e delle organizzazioni, ampliando ovviamente le proprie competenze ad ambiti non psicologici (organizzazione, tecnologia, sociologia, diritto, economia). Nella formazione invece, accanto agli psicologi, si sono rapidamente inserite altre professionalità (sociologi, pedagogisti, antropologi): ciò è naturalmente ben comprensibile, se si pensa che non si tratta più di sostenere quadri e dirigenti nel comprendere l’evoluzione dei sistemi sociali e organizzativi, superando le eventuali resistenze al cambiamento, bensì di “insegnare” loro, e più in generale a tutti i lavoratori, specifici contenuti, metodi di lavoro, tecniche gestionali: in sostanza, alla formazione è stato attribuito il compito e la responsabilità  di colmare il divario – in termini di conoscenze, capacità e competenze – tra le esigenze dell’organizzazione e le potenzialità  dei lavoratori. Compito da svolgere life long, stante l’accelerato processo di mutamento tecnologico, organizzativo, nei mercati. Se l’azienda cambia, alla formazione il compito di mantenere adeguatamente qualificata la risorsa umana. (Se invece vogliamo insieme provocare/accompagnare il cambiamento oggettivo e soggettivo, allora il compito è della psicosociologia dell’organizzazione).

2 I programmi di addestramento realizzati dalle imprese avevano raggiunto livelli di assoluta eccellenza, sia in rapporto all’effettiva possibilità  da parte degli allievi di acquisire le necessarie competenze professionali, sia in relazione alle metodologie e alle tecniche didattiche. Fra queste, le simulazioni, l’uso della videoregistrazione o degli osservatori, mentre i primi supporti informatizzati (CAI e CBT) erano proprio funzionali all’addestramento. Giova inoltre rammentare le scuole di formazione aziendale: si pensi all’Istituto Piero Pirelli o alla scuola Olivetti, ancora oggi effettivi modelli di eccellenza.

3 E’ interessante notare come la “contestazione” nei confronti dei vertici aziendali trovava un suo correlato nella messa in discussione del tradizionale criterio della rappresentanza sindacale: anche in questo caso, rifiutando una logica di vertice, compaiono le rappresentanze di base, cioè i piccoli gruppi di lavoratori omogenei quanto ad attività  che, senza mediazione, entrano nel rapporto conflittuale/negoziale con l’azienda.

4 Perché questo quadro non appaia solo di luci occorre ricordarne anche le ombre e in particolare la violenza talvolta indiscriminata che si è sviluppata nella fabbrica (ma anche nella scuola e più in generale nella società). Sono gli anni della messa alla gogna dei dirigenti e dei quadri, delle spedizioni punitive, delle “gambizzazioni”, talvolta degli omicidi, mentre prendeva corpo il fenomeno eversivo delle BR. E’ opinione diffusa che solo la capacità  del sindacato di riprendere il controllo della fabbrica abbia scongiurato fenomeni ancor più gravi.

5 Il gruppo ha certamente rappresentato lo strumento tecnico con il quale si sono avviate le iniziative di formazione e di intervento organizzativo e, sotto questo profilo, ha rappresentato lo strumento più idoneo per avviare il cambiamento. Ma ha rappresentato anche un’idea forza e un valore, in quanto in grado di rompere i tradizionali legami di coppia presenti nell’organizzazione, nella quale peraltro nella condizione top stavano sempre i capi e nella posizione downstavano sempre i lavoratori. Si ricorda inoltre il concetto di gruppo omogeneo, connesso a variabili di tipo tecnologico-organizzative.

La formazione ha avuto fortuna, soprattutto per il fatto che il cambiamento ha continuato e continua a manifestarsi in maniera accelerata coinvolgendo tutti gli aspetti della vita organizzativa, rendendo evidente che il “gap” tra le conoscenze, le capacità e le competenze possedute dai lavoratori non riguarda semplicemente il momento dell’ingresso nel lavoro, bensì continua a manifestarsi life long: insomma, è un fatto strutturale e non limitato ad alcune fasi o momenti specifici e dunque richiede una risposta altrettanto strutturale. Non a caso si parla di formazione continua.

Modelli di intervento
Dopo tanti anni di esperienze applicative, è possibile definirne il modello di riferimento. Infatti, per definire correttamente la formazione – e successivamente le capacità e le competenze dei formatori – la stessa va inquadrata nell’ambito degli interventi inter-umani: gli stessi differiscono dall’azione casuale o involontaria perché sono espressione di una specifica intenzionalità dell’agente (e del suo committente). L’intervento è un’azione intenzionale che un soggetto (agente) indirizza a un individuo, a un gruppo, a una struttura umana con il fine di determinare un cambiamento.
L’attenzione va innanzitutto all’obiettivo del cambiamento e alla relazione che si instaura per ottenerlo, che può consistere nel:

  • curare: e allora ci troveremmo nell’ambito della relazione terapeutica che utilizza risorse esterne al cliente per un obiettivo interno;
  • ottenere un comportamento specifico: e allora ci troveremmo nell’ambito della relazione di comando che utilizza risorse esterne al cliente per un obiettivo esterno;
  • sviluppare le potenzialità: e allora ci troveremmo nell’ambito della relazione di insegnamento o della relazione d’aiuto, che utilizza le risorse interne del cliente per un obiettivo esterno.

Il cambiamento, inoltre, può riguardare la dimensione:

  • individuale, cioè i problemi riferiti al singolo soggetto;
  • interpersonale, cioè i problemi della relazione di coppia;
  • microsociale, cioè i problemi del piccolo gruppo;
  • organizzativa, cioè i problemi della relazione tra più gruppi;
  • collettiva, cioè i problemi del grande gruppo.

L’intervento (curare, ottenere un comportamento specifico, sviluppare le potenzialità) può indirizzarsi a ciascuna di queste dimensioni e tenderà a provocare, alternativamente, un cambiamento nelle conoscenze, capacità e competenze, nelle rappresentazioni, nella percezione di sé e degli altri, nel benessere psicosociale, nella professionalità, nei valori, nelle motivazioni, nelle skill, nei comportamenti concreti messi in atto dal soggetto.
Per agire su queste dimensioni l’intervento può svolgersi al livello individuale (ad esempio, terapia, orientamento); a livello di coppia (ad esempio, terapia, coaching); a livello microsociale (ad esempio, team building, empowerment, addestramento); a livello organizzativo (culture e climi organizzativi, introduzione di nuove tecnologie, ristrutturazioni); a livello collettivo (interventi di comunità, azione direttiva). In altre parole, è possibile, virtualmente, intervenire a qualunque livello, cioè agendo sul soggetto o su più soggetti, per provocare un cambiamento nelle diverse dimensioni sopra richiamate. Ciò non è però vero in assoluto: infatti, mentre il comando e la terapia (che consistono sostanzialmente in un’azione direttiva che si fonda sulle competenze dell’agente e che non utilizza per il cambiamento le risorse del cliente) possono esercitarsi direttamente su qualunque aggregato umano e per ciascun obiettivo, la relazione di insegnamento o d’aiuto, che utilizza le risorse interne del cliente, presuppone la sua capacità di funzionamento al livello nel quale si interviene: ad esempio, non è possibile modificare la capacità comunicativa o quella decisionale all’interno di un gruppo se gli individui che ne fanno parte “funzionano” a livello di coppia. Prima occorrerà, superando le difese che si presentano, costituire il gruppo e poi sarà possibile agire sulle sue potenzialità. In caso contrario l’intervento, malgrado le buone intenzioni, si rivelerà un comando.
Restringendo la riflessione ai contesti lavorativi, è possibile suddividere gli interventi sulla base della prospettiva che adottano per analizzare il problema che si trovano ad affrontare. Una prima prospettiva, chiamata anche monodimensionale o a-conflittuale, considera il problema nella sua dimensione esplicita, oggettiva, concreta: che si tratti di un’insufficiente performance del soggetto, di problemi di qualità o di sicurezza, della necessità di accrescere la customer satisfaction, ecc., l’obiettivo esplicito dell’intervento consiste sempre nell’ottenere un cambiamento in quel comportamento specifico del lavoratore che consente la soluzione o il superamento del problema, nel presupposto che ogni miglioramento sia razionalmente accettabile. In questo caso, l’intervento serve a ripristinare un equilibrio tra le esigenze dell’organizzazione e i comportamenti organizzativi dei lavoratori, equilibrio rotto da qualche trasformazione intervenuta nella sfera tecnologica, normativa, culturale, ecc. Si tratta, evidentemente di modelli tradizionali che si basano sul concetto che il conflitto è da evitare, con un’impostazione di tipo razionalista e illuminista: va da sé che questi modelli privilegiano l’agente del cambiamento rispetto al destinatario dello stesso, considerano le risorse come fortemente influenzabili e hanno una concezione stretta del potere.

Gli interventi riconducibili a questa prospettiva sono esemplificati di seguito.

  • Tecniche di cambiamento individuale. Si fondano sull’assunto che promuovere il cambiamento individuale significa agire sul principale mediatore del cambiamento sociale: ogni sistema sociale definito e limitato – dunque l’organizzazione – si trasforma attraverso il cambiamento degli individui che ne fanno parte. Naturalmente, ogni cambiamento, pur se considerato positivo a livello individuale, deve essere valutato in base alla sua utilità per l’organizzazione. Inoltre, spesso il sistema è troppo psicologicamente distante dal cambiamento individuale, rendendolo inutilizzabile.
  • Tecniche tecnostrutturali. Si basano sull’assunto che le strutture organizzative sono determinate dalle tecnologie e quindi intervenire e modificare la struttura tecnica consente il cambiamento della struttura sociale e dei comportamenti individuali. Ad esempio, introducendo PC e strumenti per la didattica multimediale, certamente cambia, anche se non sappiamo bene come, la relazione tra docenti e studenti, così come introducendo una macchina a controllo numerico in officina cambia la percezione del proprio ruolo da parte di chi la utilizza.
  • Tecniche informative. Partono dall’ipotesi razionalista per cui la conoscenza dei dati è una premessa necessaria, anche se non sufficiente, per ottenere un cambiamento sociale e un nuovo comportamento organizzativo: sono interventi basati sulla comunicazione socializzata, cioè diffusa a strati sempre maggiori dei componenti il sistema. Ovviamente, il problema principale è quello della credibilità della fonte, cioè di colui che in quel contesto e in quel momento assume il ruolo di changing agent6 che fornisce i dati e le informazioni.
  • Tecniche di sviluppo organizzativo. Poiché ogni organizzazione si basa su alcuni valori, per determinare il cambiamento e lo sviluppo organizzativo è necessario cambiare tali valori o rendere i componenti della stessa più disponibili ad accettarne altri. In questa prospettiva, i cambiamenti sono essenzialmente culturali e basati sul cambiamento organizzativo, cioè su un metodo chiamato organizational development, che consiste nel creare un sistema di cambiamento permanente, cioè un’organizzazione flessibile che consente di cambiare la cultura dell’organizzazione, di incidere sui valori e sulle norme, sulla struttura di potere e sul sistema di premi e punizioni.
  • Tecniche dell’azione esemplare. Si basano sull’ipotesi del cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti mediante l’esempio e sul fatto che i comportamenti cambiano più per l’esempio di pochi che di molti, più mediante i fatti che le tecniche e le parole, più mediante l’azione diretta spontanea e non coercitiva che mediante l’imposizione. Naturalmente, si pone il problema della personalità degli operatori, o di coloro che danno l’esempio, e del loro sistema di valori.
  • Tecniche di analisi transazionale. Il modello transazionale si basa sul concetto di analisi delle relazioni, dette transazioni, tra un individuo e un altro, attraverso lo studio degli stati dell’Io (parentale, adulto e infantile), l’analisi dei giochi, l’analisi dei copioni. L’analisi transazionale è considerata un utile strumento per innovare le organizzazioni in quanto consente di conoscere la realtà su se stessi, sulle proprie relazioni con gli altri e sul copione che, spesso senza saperlo, recitiamo con gli altri: questi copioni dei singoli possono essere modificati e riprogettati mediante interventi basati sul concetto di stato dell’Io e di analisi delle transazioni.
  • Tecniche violente o coercitive. Si tratta di interventi poco studiati anche per la mancanza di appropriati metodi di ricerca e di adeguati riscontri sui risultati già acquisiti. Le ragioni di questa difficoltà è rintracciabile nel convincimento che la violenza sia socialmente distruttiva e quindi da scoraggiare; inoltre la violenza è un’area illegittima dell’azione sociale e come tale è argomento illegittimo di ricerca scientifica: in ogni caso, si discute se questi metodi, come le occupazioni, gli scioperi, i blocchi delle strade, i licenziamenti, gli ordini di servizio, le punizioni, le intimidazioni possano servire per effettuare interventi nelle organizzazioni e nei sistemi sociali.
  • Tecniche di simulazione o di strategia. Si basano sul presupposto che il comportamento ludico è un modo di intervenire nelle organizzazioni. I giochi consistono nella simulazione di un comportamento potenzialmente pericoloso (o nuovo) in condizioni di ridotto rischio: si propongono come tecnica di facilitazione del cambiamento e dell’innovazione organizzativa in quanto consentono la sperimentazione del “nuovo” comportamento che, se adottato con successo, verrà poi trasferito nella vita organizzativa. Un altro modo di affrontare il cambiamento organizzativo consiste nel partire dall’esterno, usando la tecnica dello scenario, una rappresentazione globale di una situazione, con lo scopo di fornire all’organizzazione uno schema di riferimento più ampio, che consente la modifica delle strategie di impresa.
  • Tecniche di formazione e di sviluppo personale. La formazione si regge sulla capacità dei protagonisti di mantenere la loro tendenza al cambiamento, nonostante la paura dell’insuccesso. Tende a determinare un cambiamento nelle conoscenze, capacità e competenze dei soggetti, a favore dell’organizzazione della quale fanno parte. In questo cambiamento, per il quale si utilizzano strumenti pedagogici, diviene cruciale il contenuto specifico della formazione e dunque l’analisi dei bisogni (dell’individuo e dell’organizzazione), con l’obiettivo di adeguare le performance dei lavoratori alle esigenze dell’organizzazione. Psicosociale nella formazione significa credere nella modificabilità degli individui e delle strutture, in parallelo.

La seconda prospettiva, denominata bidimensionale o conflittuale, considera il problema sul quale occorre intervenire comunque come espressione di un “conflitto” latente o represso. Il problema, pur avendo una consistenza oggettiva, non è che la manifestazione visibile di un conflitto che lo precede e che trova la sua origine in uno dei livelli (individuo, coppia, gruppo, organizzazione, collettivo) che sono presenti nell’organizzazione. Poiché i problemi sono molti, dobbiamo presumere l’esistenza di molti conflitti; oppure, al contrario, la presenza di un conflitto fondamentale che li genera tutti. Ciò significa che occorre individuare con attenzione le polarità e i livelli del conflitto per non occuparci di problemi secondari (falso problema) la cui soluzione ne farebbe semplicemente nascere altri: occorre intervenire su quei problemi la cui soluzione ci avvicina al conflitto principale. Questi modelli si basano su di una concezione “positiva” del conflitto e sull’uso sistematico delle situazioni conflittuali, ritenute “normali”, per intervenire e promuovere cambiamenti nei sistemi sociali (organizzazioni), cioè in entità collettive ove dove lo stesso dilemma vecchio/nuovo viene vissuto in termini antitetici e conflittuali. Proprio perché occorre intervenire sul conflitto, talora ricercandolo e facendolo emergere al di là dei problemi dietro i quali si nasconde, occorre che chi interviene sia “terzo” rispetto alle polarità dello stesso: l’agente di cambiamento, cioè, non si pone al servizio dell’una o dell’altra parte, bensì considera contemporaneamente committente e destinatario dell’intervento l’intiero sistema cliente, cioè tutta l’organizzazione.

6 Giova ricordare, ma la riflessione si applica anche in rapporto alle altre tecniche di intervento, la fondamentale distinzione tra agente interno ed esterno all’organizzazione. Il primo è un dipendente dell’organizzazione o comunque in rapporto di forte appartenenza e dipendenza psicologica: sarà facilitato dalla sua conoscenza del contesto ma, ovviamente, avrà l’autorevolezza e la credibilità dell’organizzazione e sarà vissuto, inesorabilmente, come “parte”. Il secondo è invece esterno all’organizzazione sia sotto il profilo formale che psicologico e sarà dunque in grado di assumere un ruolo di terzietà nei confronti del conflitto organizzativo: sarà più in difficoltà in rapporto agli elementi di contesto ma sarà più in grado di attivare processi di cambiamento. Anche l’agente esterno subisce un processo di logoramento: dopo un po’, o si allontana dall’organizzazione o finisce per identificarvisi e cessa di essere terzo, a meno che non si procuri un’adeguata supervisione.

Gli interventi riconducibili a questa prospettiva sono i seguenti.

  • Tecniche di piccolo gruppo. Il piccolo gruppo è visto come cinghia di trasmissione del cambiamento, in quanto è in grado di provocare cambiamenti a livello individuale e di coppia, ma anche a livello organizzativo e collettivo. L’obiettivo di mutamento è identificabile in un processo di “risocializzazione” che parte dall’individuale e dal microsistema, rappresentato dal piccolo gruppo, per arrivare al sociale e al macrosistema rappresentato dall’organizzazione. Le norme e i valori creatisi attraverso l’attività nel piccolo gruppo influenzano l’organizzazione, così come i valori e le norme dell’organizzazione influenzano il piccolo gruppo e, attraverso questo, l’individuo. Il presupposto è che il piccolo gruppo favorisca nell’individuo la presa di coscienza, l’apprendimento dell’incertezza, la gestione dell’ansia e faciliti il superamento delle difese e delle resistenze al cambiamento7.
  • Tecniche di controllo della velocità del cambiamento. Questi interventi tendono a prevenire le difese e i rigetti mediante il controllo della velocità del cambiamento organizzativo. Questo modello affronta la successione di tempi e fasi del cambiamento (unfreezing, changing, refreezing), che occorre controllare eventualmente riproponendoli più volte: allentamento delle norme vigenti, sperimentazione del cambiamento e suo consolidamento. E’ evidente che conta tanto la velocità, e cioè i consolidamenti parziali, quanto la qualità che il sistema cliente esprime nelle diverse fasi: se infatti il cambiamento si rivela troppo ansiogeno occorre rallentarlo: in caso contrario si ritorna di fatto ai modelli unilaterali (comando, terapia).
  • Analisi istituzionale8. Il presupposto è che ogni sistema sociale definito si regga tramite la funzione rassicurante dell’istituzione, cioè dell’insieme ufficializzato e formalizzato di regole e norme di convivenza sociale (cultura). Tale insieme di norme serve ai componenti il sistema per controllare le proprie ansie persecutorie. Sotto questo profilo, l’organizzazione rappresenta un sistema rassicurativo ma anche repressivo: la repressione di un’istituzione può essere distinta in funzionale, tendente a realizzare lo scopo ufficiale dell’istituzione, e addizionale, tendente a mantenere in vita la cultura vigente. L’analisi istituzionale è l’analisi della situazione dell’istituito, cioè l’organizzazione così come appare ai suoi membri e ai suoi clienti, allo scopo di individuare il momento istituente, cioè le ragioni che hanno condotto i fondatori a crearla o di riprogettarne uno nuovo. Si applica sui collettivi istituzionali più che sulle organizzazioni industriali.
  • Analisi delle contraddizioni e dei conflitti. Questo modello di intervento si basa sul presupposto che l’esame della realtà consenta di portare alla luce una serie ampia di contraddizioni, la cui analisi porti all’identificazione di una o due contraddizioni principali, mentre le altre, secondarie, restano sullo sfondo, come dipendenti dalle prime. Dalle contraddizioni derivano i problemi visibili o avvertiti. La contraddizione principale è quella che, se capita ed è risolta, porta a una maggior efficienza globale tutto il sistema; la contraddizione secondaria invece è quella che, anche se risolta, non sposta i termini della conflittualità tra le polarità in conflitto. Partendo dalle contraddizioni principali si può portare il sistema oggetto dell’intervento, sia esso coppia, gruppo, organizzazione o collettività, da una situazione di conflitto nascosto e attivo o palese e bellicoso, a una situazione di conflitto contrattato e gestito, sviluppando la capacità delle persone e dei sistemi organizzativi di tollerare e di gestire il conflitto in modo più efficace e meno inefficiente.
  • Intervento psicosociale. Questo metodo si basa su due principi: l’uso dei piccoli gruppi, nel loro ruolo di cinghia di trasmissione dal macro all’individuo e dall’individuo al macro, e la contemporanea azione strutturale e sui climi. La dimensione soggettiva dell’intervento si basa sull’uso del piccolo gruppo come veicolo di valori, percezioni, comportamenti e motivazioni dall’individuo all’organizzazione; tale intervento si concentra sull’innovazione e il cambiamento organizzativo. La dimensione obiettiva dell’intervento si basa invece sull’uso del piccolo gruppo come veicolo dall’organizzazione all’individuo di altri valori, come percezioni, comportamenti o motivazioni; questo intervento si concentra sull’adattamento e sul mantenimento dello status quo. Dimensione soggettiva e dimensione oggettiva, conflittuali, debbono trovare, attraverso il gruppo, un nuovo equilibrio attraverso il contemporaneo cambiamento psico- (valori, relazioni, stili, climi, ecc.) sociale (norme, strutture, tecnologie, ecc.). Un “ritardo” di uno dei due trasformerebbe l’intervento in manipolativo o repressivo. Il lavoro del piccolo gruppo consiste nell’analisi e trattamento di alibi e resistenze soprattutto tra micro e macro, tra piccolo e grande gruppo, tra dinamica di gruppo e clima organizzativo.
  • Tecniche di negoziazione. Questa modalità di intervento consiste essenzialmente nel creare lo “spazio negoziale”: occorre cioè costruire in zona conflittuale una mentalità o un clima negoziale e una struttura logica della negoziazione che permetta di utilizzare al massimo le risorse disponibili. Il ruolo di ciascun negoziatore consiste nella realizzazione di interessi e di desideri propri o altrui, gestendo e utilizzando relazioni, contrattando soluzioni e ricercando il consenso della parte propria e altrui. La negoziazione si esprime tra due o più parti del conflitto e può essere superata dalla volontà di passare dalla negoziazione alla cooperazione.
  • Intervento sui climi. Si tratta di un intervento conflittuale attivo a livello tra piccolo e grande gruppo che si basa su due tipi di conflitti: uno tra i vari membri dell’organizzazione, uno tra l’organizzazione e i gruppi che fanno la diagnosi delle percezioni e degli atteggiamenti diffusi, in rapporto alle diverse dimensioni del clima. La prospettiva è quella di fare diagnosticare l’organizzazione da parte dei suoi membri, cioè dall’interno, per sviluppare sempre dall’interno proposte innovative.

Esistono naturalmente numerosi altri modelli di intervento (learning organizationcareer change, strategie d’eccellenza, ecc.), sia mono- che bidimensionali, che tuttavia non si discostano, quanto a impianto, da quelli sopra richiamati. Inoltre spesso, nella pratica di intervento, i diversi modelli si fondono o si adattano, pur senza che venga meno la loro diversità, alle domande del cliente cui spetta, in definitiva, l’indicazione dell’obiettivo.

7 E’ nella dinamica del piccolo gruppo che si determina questo processo di cambiamento, da un lato nel passaggio dalla relazione di coppia alla relazione di gruppo (quello che Spaltro (1990) chiama interfaccia a), attraverso il superamento delle difese e quindi il cambiamento individuale, dall’altro, nel passaggio dalla relazione di gruppo a quella organizzativa (interfaccia b) attraverso la gestione degli alibi e delle resistenze al cambiamento organizzativo.