L’orientamento può cambiare rotta? Può, rinnegando l’homo adaptus, oeconomicus e competens, promuovere l’homo prospectus, visionarius e sapiens? (Seconda parte)
Salvatore Soresi, Università di Padova
Nel numero precedente di questa newsletter ho discusso che i peggiori ‘nemici’ di un orientamento di qualità sono gli estensori di quei documenti e di quei programmi di orientamento che, in modo più o meno consapevole ed implicito (sono generalmente privi di aggiornati richiami bibliografici), continuano ad ispirarsi ad alcune visioni nocive quali quelle che si focalizzano sui dictat dell’uomo giusto al posto giusto (homo adaptus), dell’uomo del primato dell’economia di mercato (homo oeconomicus) a scapito della partecipazione e della convivenza sociale, e dell’uomo delle competenze (homo competens) a proposito del valore che va riconosciuto al merito, alle eccellenze e a quelle competenze che potrebbero garantire un futuro di successo.
Un orientamento diverso, di qualità e ‘positivo’ dovrebbe, di contro, insegnare a puntare ad un futuro equo, sostenibile ed inclusivo per tutti in grado di valorizzare e dar spazio ad un homo effettivamente sapiens, che sia al contempo marcatamente previdente e lungimirante (homo prospectus) e generoso e solidale (homo solidalis).
Secondo questa prospettiva l’orientamento potrebbe incoraggiare a pensare di meno, in modo narcisistico, a sé stessi e ai propri ‘orticelli’ passati e presenti e un po’ di più e più spesso a cosa potrà accadere in futuro, agli altri, alla salvaguardia del nostro pianeta, individuando responsabilità, impegni, missioni da incarnare ed imprese da intraprendere. Un orientamento di questo tipo, indirizzato allo sviluppo sostenibile, all’homo sapiens, a quello ‘prospectus e solidalis’, non dovrebbe più chiedere agli studenti “Cosa vorrai fare da grande o qual è la tua professione ideale”, ma “Di quali problemi intendi occuparti, a quale missione per un futuro migliore intendi partecipare?” Non dovrebbe più chiedere “Quali competenze hai maturato?” o “In cosa ti senti di eccellere?”, ma “Cosa vorresti apprendere ancora e di nuovo, in cosa vorresti perfezionarti?”; “E noi, come gruppo, come laboratorio, di cosa potremmo occuparci?”, “A proposito di ciascuna di quelle sfide ed emergenze che ci aspettano, quale potrebbe essere il tuo, il nostro contributo?” “Come cittadino potrei…; come figlio/a potrei…; come amico/a di… potrei; come studente potrei…; come Istituto potremmo…”. L’orientamento anche proponendo stimoli come questi potrebbe così proporsi di far riflettere sul futuro, ricercando valori e occasioni per imbattersi in novità sorprendenti, senza lasciarsi imprigionare dagli antefatti, personali ed ambientali, saturi di svantaggi e vulnerabilità… grazie a visioni e a relazioni in grado di avviare nuovi progetti, nuove traiettorie, nuove storie che andrebbero ancora scritte.
Dato quanto sopra va da sé che i programmi di orientamento non possono essere ovviamente standardizzati, hanno bisogno di tempo, di pazienza, di personalizzazioni, di occasioni di apprendimento, di moduli e laboratori da condurre in contesti educativi solidali e supportivi. In conclusione, si tratta, facendo orientamento a scuola, di non pensare più in termini ‘psicoattitudinali’, di non andare più alla caccia dell’uomo giusto al posto giusto (homo adaptus), di come soddisfare l’homo oeconomicus, o come ricercare quello competens (così come continuano a suggerire tante agenzie internazionali interessate allo sviluppo economico, all’auto-imprenditorialità e alle cosiddette management skills). Dovremo, smettendola di assecondare le pretese dell’homo oeconomicus, ricordare che l’orientamento punta all’homo sapiens, a quello che, come dice ormai tanta neuropsicologia e la cosiddetta social brain theory [1], far lavorare anche il suo ‘cervello sociale’, la sua capacità, cioè, di pensare, di intendere e farsi intendere dagli altri, tanto da essere sovente proteso a vedere, a immaginare il futuro. La persona intelligente (dal latino ‘intelligere’) sarebbe pertanto quella che si comporta prevedendo ciò che verrà dopo, le conseguenze dei comportamenti propri e degli altri e le condizioni situazionali necessarie al loro manifestarsi.
Anche chi fa orientamento, forse, può scegliere e decidere di essere più sapiens, e può dimostrarlo realizzando attività di orientamento attente soprattutto a quei ragazzi e a quelle ragazze che l’orientamento tradizionale troppo spesso tende a trascurare considerandoli/e sbrigativamente e colpevolmente poco adatti/e per lo studio e per la teoria. Chi fa orientamento, nelle scuole soprattutto, potrebbe forse dimostrarsi sapiens anche rifiutandosi di formulare giudizi e consigli di orientamento che non farebbero altro che ‘profetizzare’ futuri poco soddisfacenti proprio per quelle ragazze e quei ragazzi che, che, anche senza l’orientamento, l’Invalsi, con il rischio che vangano lasciati ai loro destini. Chi fa orientamento nelle nostre scuole, potrebbe forse, decidere che lo scopo dell’orientamento è l’incremento delle capacità di aspirare e che questo può essere perseguito solo a scuola, precocemente, con autentiche sensibilità educative, libere da pressioni derivanti dai mercati e, pertanto, molto tempo prima delle epoche di transizione e delle scadenze amministrative.
L’homo sapiens chiede pertanto all’orientamento di fare dell’altro, ma non in modo scoordinato ed occasionale: deve essere rigorosamente programmato e realizzato precocemente da insegnanti e da professionisti adeguatamente formati per tale obiettivo. Ha bisogno di collaborazioni e concertazioni, non può essere lasciato alle iniziative dei singoli istituti e di alcuni docenti o alla disponibilità collaborativa di alcuni professionisti. Anche se autenticamente interessati, mancando di specifiche formazione in materia, è facile lasciarsi attrarre da ‘visioni’, anche ministeriali, che conducono a realizzare azioni e progetti il più delle volte inefficaci e poco rigorosi da un punto di vista teorico e metodologico.
È ciò che da tempo lamentano molti studiosi, e non solo italiani, di orientamento. Da noi, ad esempio, Viglietti, già molti anni fa (1997), affermava che “toccherà, principalmente alle autorità scolastiche locali promuovere per gli insegnanti seri incontri di formazione (non di aggiornamento semplicemente), di carattere teorico e sperimentale, mediante corsi residenziali (spesati e retribuiti) in opportuni periodi dell’anno scolastico, appoggiandosi alle istituzioni universitarie, agli ordini professionali e ai Centri riconosciuti che da anni operano in questo campo (…)”. Tutto questo, continuava Viglietti “implica però un cambiamento di mentalità teorico-operativa a cui gli insegnanti in genere, diversamente da quel che si può credere, sono disponibili qualora si renda effettivamente operante la triplice condizione di avere un ‘tempo scolastico adeguato per l’orientamento’, di poter acquisire (…) una ‘formazione specifica ufficialmente riconosciuta’, e di avere ‘il sostegno e la collaborazione attiva dell’autorità scolastica e delle famiglie” (p. 104) [2]. E ancor prima, e senza tirare in ballo la letteratura internazionale del vocational guidance e della career education [3] basti ricordare che in Italia già negli anni ‘70 Scurati (1976), nel primo e multidisciplinare volume [4] dedicato dall’editoria italiana all’orientamento, affermava che “gli organismi scolastici sono chiamati ad assumere responsabilità sempre più incisive, ma che per evitare che ci si riduca a mere operazioni amministrativo-burocratico di accompagnamento delle persone nelle cosiddette fasi di transizione, da una scuola all’altra, dalla scuola al lavoro, dal lavoro al lavoro, è necessario ‘un preciso e competente aiuto. (…) – in quanto – in un mondo in perenne equilibrio instabile (…) scegliere e determinarsi rappresenta un duro e difficile compito ed impegno” (p. 239).
Tutto questo ci fa ritenere che la peculiarità propria dell’orientamento è il suo essere proteso in avanti, l’essere poco interessato al presente e meno ancora al passato e, questo, perché le riflessioni che propone sono proprio indirizzate allo scegliere, all’agire e, cioè, al futuro.
L’homo sapiens che abbiamo in mente e che si riconosce pertanto anche come reciprocus e solidalis, si caratterizza così, e questo lo dovrebbe rendere particolarmente attraente agli occhi degli orientatori, come prospectus per il suo prediligere il futuro, per la sua ‘mania’ di tentare di anticipare ciò che accadrà e di regolare in tal senso la sua agenticità. Va da sé, e per questo l’orientamento necessita di competenze e di professionalità elevate, che la formulazione di ‘previsioni migliori di quelle casuali a proposito di ciò che avverrà in futuro diventa sempre più complicato man mano che il futuro considerato si allontana nel tempo. Lo stesso vale per le strutture mentali necessarie ad utilizzare tali informazioni “anticipatorie nell’azione, per l’immaginazione, la pianificazione e l’autocontrollo” (Railton, 2016). Sono parole che se non sapessimo che sono state scritte da un importante filosofo della scienza potremmo facilmente attribuirle ad uno studioso dell’orientamento e dei processi decisionali implicati nelle operazioni di scelta di un’opzione professionale; l’autore per altro continua sostenendo che lo sviluppo dell’anticipazione, come lo sviluppo di qualunque altra capacità, richiede tanto impegno cognitivo e un apprendistato molto lungo in quanto si tratta di ‘fare una stima di quello che promettono i vari percorsi in relazione agli obiettivi perseguiti, considerando i rischi e i costi probabili. Poiché né le possibilità future, né il loro valore stimato si danno alla vista, all’udito, al tatto o all’olfatto, queste sono caratteristiche del mondo che possono essere presentate alla mente della percezione, passata e presente’.
L’orientamento, per avere un significato psicologico ed educativo e per vedersi riconoscere una certa rilevanza sociale dovrebbe riuscire, a proposito di un futuro che, ad esempio, una studentessa o uno studente potrebbe cercare di anticipare, a generare quel ‘vedere’ e quel ‘sentire’ che è proprio degli atti percettivi collocandoli però nelle possibilità che essi intravvedono per un loro futuro, nella ‘descrizione’ delle proprie aspirazioni e dei propri desideri analogamente a quanto gli stessi effettivamente vedono e sentono nel loro presente. L’orientamento dovrà occuparsi di aspirazioni e far in modo che i giovani, innanzitutto, aspirino a diventare delle persone sapiens, attente alla reciprocità, alla solidarietà, alla sostenibilità.
Dobbiamo in ogni modo tenere presente che tutto non è il prodotto di un’esperienza solitaria, ma di interazioni intraprese, dell’esplorazione, come si dice in orientamento, di posti e luoghi anche non ‘nostri’, non familiari. È per questo che è preferibile orientare e stimolare la riflessività in contesti relazionali, di gruppo, laboratoriali, in contesti, cioè, in cui le persone possano parlarsi e ricercare assieme. D’altra parte sarebbe proprio questa la condizione che anche secondo Yuval Noah Horari (2011) determinerebbe la supremazia dell’homos sapiens nei confronti degli altri abitanti del nostro pienata, la sua capacità di condividere con i propri simili informazioni sul mondo e, soprattutto, quelle riguardanti gli uomini, non i leoni o i bisonti. “Il nostro linguaggio si sarebbe evoluto come un modo per fare pettegolezzi. Secondo questa teoria, l’homo sapiens è innanzitutto un animale sociale. La cooperazione sociale è la nostra chiave per la sopravvivenza e la riproduzione (…) Il fatto di avere informazioni attendibili riguardo agli individui di cui ci si poteva fidare diede l’opportunità di ampliare i ranghi del gruppo, e i Sapiens poterono sviluppare più stretti e più sofisticati tipi di cooperazione” (Yuval Noah Horari, 2011, p. 35). E un po’ più in là… “È relativamente facile concordare sul fatto che solo l’Homo sapiens può parlare di cose che non esistono veramente – di futuro, di desideri ad esempio – e mettersi in testa storie impossibili appena sveglio. Non riuscirete mai a convincere una scimmietta a darvi una banana promettendole che nel paradiso delle scimmiette, dopo morta, avrà tutte le banane che vorrà, (…) il punto è che la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente”.
È bello pensare che questo possa essere facilitato anche dall’orientamento, che nei laboratori si possa effettivamente aiutare i nostri studenti e le nostre studentesse ad immaginare, ad andare oltre la realtà presente mentre sono in procinto di scegliere percorsi formativi e professionali. Nello stimolare a far questo si chiede loro, in altre parole e per altro, di imparare a pensare e a comportarsi in modo saggio.
Che la saggezza c’entri con l’orientamento lo afferma, indirettamente ovviamente, anche il vocabolario Treccani quando la definisce in termini di ‘capacità di seguire la ragione nel comportamento e nei giudizi, moderazione nei desideri, equilibrio e prudenza nel distinguere il bene e il male, nel valutare le situazioni e nel decidere, nel parlare e nell’agire, come dote che deriva dall’esperienza, dalla meditazione sulle cose, e che riguarda soprattutto il comportamento morale e in genere l’attività pratica’. Come si intuisce facilmente la ‘saggezza’ mobilita una serie complessa e variegata di processi e fenomeni di natura sia cognitiva che emozionale, valoriale, culturale e sociale, il riflettere, l’immaginare, il fantasticare e l’analizzare, l’interpretare e il valutare, il condividere e il provare empatia, tutto ciò che, in un’unica espressione, consente all’essere umano di entrare in contatto, di ‘essere in comunicazione’ con se stesso e il mondo esterno, con gli eventi passati e presenti e, persino con quelli che potrebbero riguardare il futuro.
Non dovrebbe sorprendere, che per quanto sopra, l’orientamento, come tanta educazione e tanta psicologia, dovrebbe occuparsi massicciamente anche di saggezza. Nello studiarla e nel suggerire di praticarla nei laboratori di orientamento potremmo, seguendo ad esempio i suggerimenti di Bluck e Glück (2005) e di Staudinger & Glück (2011) procedere sia con operazioni di tipo essenzialmente descrittivo, sia considerando gli esiti che la ricerca e la sperimentazione sono al riguardo in grado di esibire.
[1] Il cervello sociale, come noto, è costituito da una serie di regioni cerebrali aventi la capacità di anticipare, prevedere ed interpretare i comportamenti altrui. Inizia a svilupparsi, come intelligenza sociale, sin dai primi anni di vita. Come da noi ha riassunto Alberto Oliverio (Il cervello sociale in Mente e cura, Periodico IRPPI, n.0, 2009, 35-48), riprendendo anche gli studi di diversi Premi Nobel della medicina, il cervello sociale “è legato ad alcune aree cerebrali che svolgono funzioni varie (…) che ci sono delle strutture nervose specifiche che entrano in funzione quando io penso agli stati mentali, non tanto i miei quanto quelli altrui” (p. 44)
[2] Viglietti M.(1997),La relazione d’aiuto e l’orientamento, Rassegna Cnos-Fap, anno 13, n. 2. Maggio-Agosto
[3] Vocational guidance: costrutto che attiene ai processi inerenti l’orientamento professionale; Career education: categoria formativa che definisce quelle attività che aiutano i giovani a conoscere meglio i contesti di lavoro e i percorsi di studio, ma anche le proprie caratteristiche personali e potenzialità. La ritroviamo anche, a livello nazionale, nei recenti documenti del MIUR sull’orientamento e sui PCTO.
[4] Sto facendo riferimento a quella corposa raccolta di contributi a firma di psicologi, pedagogisti, economisti, sociologi e persino di esperti in scienze statistiche e sanitarie e di medici, L’orientamento. Problemi teorici e metodi operativi, che è stata sapientemente curata da Costante Scarpellini e Emilia Strologo (Brescia, Editrice La Scuola,1976).